Ieri sera in un ristorante trendy di New York, la ragazza che ci ha portato al tavolo dove sederci aveva un tatuaggio sul polso e sul braccio. Era un filo spinato. Per un attimo mi è preso un brivido. Ho pensato che oggi, 27 gennaio, ricordavamo altri tatuaggi. Ho cominciato a pensare a quel gennaio del 1945 e ai russi che liberavano ad Auschwitz.
Ho pensato, e mi capita spesso, che se il tatuaggio di una ragazza è un filo spinato… allora davvero non abbiamo capito nulla.
I tatuaggi sono di moda, si dice così? Avrei voluto dire qualcosa alla ragazza, ma mi avrebbe certamente preso per pazzo. Lei, con la sua camicia bianca impeccabile, e il look trendy come il ristorante. Ho tenuto per me l’amarezza, la tristezza.
E poi stamani, su Park Avenue davanti al Consolato Italiano, abbiamo letto i nomi dei deportati italiani. I nomi dei pochi sopravvissuti, e della stragrande maggioranza che non è mai tornata. I vari Spizzichino e i Di Porto pronunciati – con accenti spesso stranieri – nel cuore di Manhattan davanti a un microfono da una folla eterogenea di diplomatici, preti e rabbini, giovani studenti, funzionari di aziende italiane e giornalisti. La pioggia accompagnava questa lettura, così come lo faceva anche la musica….
Ho fatto anche io la mia parte leggendo nomi di per sone che non sono più tornate, ma spesso legate a ricordi e racconti.
Parenti di quello, cugini zie e nonni di quell’altro. Per me ogni nome era un mezzo ricordo, un pensiero. Poi, dopo tanti anni da quando questa si tiene questa cerimonia, ho intravisto il foglio con tutti i nomi dei Fiano. Dei miei nonni, dei miei zii, di mio cugino…
E anche di mio padre, che da Buchenwald è tornato e ancora oggi dedica la sua vita proprio a testimoniare quanto è stato. E anche a spiegare che senso abbia oggi ricordare, e non solo per i sopravvissuti ma sopratutto per le giovani generazioni.
Non è toccato a me leggerli, ma ha avuto un effetto strano sentirli letti da qualcun altro in mezzo al traffico della città a quasi 70 anni dalla loro deportazione.
Ero lì per strada ad ascoltare questi nomi, diviso fra la tristezza del ricordo e il pensiero che in fondo abbiamo la fortuna di essere qui. Di essere liberi.
Mi chiedevo, come sempre, cosa avrebbero detto i nonni che non ho conosciuto di questa cerimonia, di questa giornata.
A un tratto una ragazza afroamericana giovane, mi ha chiesto se avevo un attivo per rispondere a qualche domanda. A un’intervista. La ragazza era giovane, poco più che adolescente, e registrava per una televisione dei ragazzi. La ragazza si è presentata, mi ha stretto la mano, e poi davanti alle telecamere mi ha chiesto che senso avesse la cerimonia davanti al Consolato. Avrei voluto chiederle quante ore aveva a disposizione per una risposta. Ma sapevo che mi erano concessi pochi secondi. E allora, forte dell’esempio di mio padre, le ho detto che se non conosciamo il passato, se dimentichiamo quando è successo, la storia potrebbe ripetersi.
E che la libertà che diamo per scontata, non lo è se non capiamo di cosa sia il frutto. Le ho detto che i nomi letti in quel momento non erano solo per la memoria, ma anche per il presente e il futuro.
Le ho detto che la cerimonia era molto più per lei e la sua generazione, che per me. Che per me, francamente, ogni giorno è il giorno della memoria. La ragazza, leggermente stupita per la mia risposta, ha sorriso. A lei, a differenza di quella della sera prima, ho detto quel che pensavo. Non ho idea di cosa abbia pensato o capito. Era già il turno di un altro intervistato. Il console australiano a New York.
* Questo è un pensiero che Andrea Fiano, giornalista a New York, ha scritto sulla sua bacheca di Facebook il 27 gennaio