Sergio Fiano, nato a Firenze il 14 dicembre del 1942.
Arrestato nel febbraio del 1944 a Firenze da italiani.
Detenuto nel carcere delle Murate e poi trasferito a Fossoli.
Da qui deportato ad Auschwitz il 5 aprile del ’44, assieme alla madre Lilia di Porto e al padre Enzo Fiano.
Ucciso all’arrivo ad Auschwitz il 10 aprile del ’44.
Come lo furono i suoi genitori, e più avanti i suoi nonni paterni.
Sergio è il più giovane fra i deportati di Firenze.
Ed era mio cugino.
Oggi avrebbe più di 70 anni.
In questo Giorno della Memoria anche il suo nome, fra tanti, risuonerà su Park Avenue davanti al consolato italiano di New York dove si leggono i nomi dei deportati ebrei dall’Italia e dai territori allora amministrati, e forse verrà nominato anche in Italia in città e circostanze diverse. Questo vuol dire poco, pochissimo, rispetto all’enormità dei Fatti e della Storia. Rispetto alle mille domande senza risposta sulle leggi razziali, e le deportazioni, sulle connivenze, le soffiate, e anche gli episodi di buon cuore e persino di eroismo antifascista. Perchè dietro ogni singola vittima o deportato c’è una storia, c’è chi li ha fatti arrestare, chi li ha traditi magari per incassare una “taglia”, e talora anche chi ha pagato di persona per averli nascosti.
Oggi non ci sono risposte, men che mai il 27 gennaio, ma solo il riproporsi di quesiti inquietanti. E un attimo di riflessione sul passato anche troppo recente.
Qualcuno in questi giorni critica cosa sia diventato il Giorno della Memoria, la sua istituzionalizzazione e banalizzazione e le tante iniziative che nulla hanno che vedere con il senso originario di ricordare le persecuzioni e le deportazioni degli ebrei, dei sinti e dei rom, degli oppositori politici antifascisti. Si dice che non tocca solo agli ebrei fare da testimoni e ricordare. Che si celebra e si ricorda senza avere il coraggio di fare i conti con il passato, con le connivenze e le responsabilita’ di tanti. Che non serve solo una data come quella della liberazione di Auschwitz da parte dei russi, per chi ricorda sempre e comunque.
Su questo mi sento, per una volta, un minimalista. Perchè se le mille iniziative di questa giornata servono anche solo a spingere un solo giovane a studiare, a documentarsi, a porsi dei quesiti, a considerare che “questo è stato” e “se questo è un uomo”, o gettano luce su un periodo tragico della storia, per me è già un risultato. Come lo è quello di concentrarsi sia sulla Storia che sui singoli attori di questa tragedia, della Shoà.
Memoria quindi, del passato ma anche per il futuro. Per riflettere, per agire, per restare vigili. Ancora di più oggi che spesso alla memoria si preferisce l’oblio.
Ho cominciato ricordando mio cugino.
Finisco ricordando un compagno di viaggio di mio padre, nei vagoni piombati che li portarono ad Auschwitz. Mio padre, unico della sua famiglia, è stato liberato nel 1945 a Buchenwald dagli americani.
Friedrich (Fritz) Bermann era nato a Vienna nel 1918. Venne arrestato da italiani il 12 dicembre del 1943 assieme alla moglie Mary Wodak nel Grossetano. Prima viveva a Roma ed era un componente dell’orchestra della Eiar, ovvero quella che poi divenne la Rai. Bermann, nei racconti di mio padre, suonava la fisarmonica per tirare su il morale dei deportati. Il racconto, con il passare degli anni, e’ diventato frammentario e impreciso. Non so se Bermann suonasse la fisarmonica a Fossoli, prima della deportazione ad Auschwitz, o anche sul vagone piombato stesso. Venne deportato da Fossoli il 16 maggio del ’44 ed è morto in data e luogo ignoti.
La sua fisarmonica è un simbolo, oltre che un racconto su cui sono cresciuto. Ho pensato che oggi pochi, forse nessuno, avrebbero ricordato il più giovane deportato da Firenze e il musicista dell’Eiar.
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