Con l’accordo di domenica sul clima, l’Onu ha fatto ripartire la trattativa sul salvataggio del pianeta alla catastrofe ambientale. Il compromesso raggiunto al Cop17, il diciassettesimo vertice delle Nazioni Unite sul clima, anche se non entusismante, fa uscire la comunità degli stati dallo stallo degli ultimi anni, catturando per la prima volta nuovi industrializzati, segnatamente la Cina, nel gruppo dei volenterosi guidato dall’Unione Europea.
Restano le riserve di molti Paesi americani, compresi gli Stati Uniti, da anni estranei agli impegni del protocollo di Kyoto e fautori di una politica di “splendido isolamento ambientale” che li rende i primi emissori al mondo di anidride carbonica. Resta sopratutto la decisione, comunicata cinque giorni fa dal Canada, di uscire da Kyoto, per non dover rinunciare allo sfruttamento delle sue sabbie catramose (“tar sands”) ricche di greggio altamente inquinante.
Notoriamente, il ciclo dell’influenza umana su atmosfera e clima, ruota intorno a prodotti come: anidride carbonica, metano, protossido di azoto, esafloruro di zolfo, idrofluorocarburi, perfluorocarburi. La conferenza di Durban appena conclusa, non ha fissato concrete misure di loro contenimento. In compenso ha varato un gruppo di lavoro che, da Cop18 inQatar, fornirà la base giuridica condivisa e vincolante per comportamenti responsabili universali contro il riscaldamento globale. Il piano sarà definito entro il 2015, le misure andranno ad esecuzione nel 2020. Intanto, dal 2013 partirà la seconda fase degli impegni di Kyoto (solo per gli aderenti, Ue e alcuni paesi industrializzati), e successivamente si prevede entri in funzione il Fondo Verde annuale da 100 miliardi di dollari in aiuto dei paesi più poveri. A nessuno sfugge che con Durban è mutato il quadro delle alleanze in materia di preservazione dell’ambiente e del clima. Dal posizionamento unitario degli anni Novanta tra membri dell’allora triade (Usa, Giappone, Europa), si è transitati alla situazione che vede come “non interventisti” Usa, Giappone, Canada, Russia, gli emergenti con energie sporche; come “interventisti” Ue, Cina, Brasile, Sudafrica, Messico, India.
Al di là dell’arretramento tecnologico che detto posizionamento comporta per Stati Uniti e Canada, ai due non può sfuggire che se l’Ue è da decenni sinceramente votata alla causa ecologista, la Cina inizia a cavalcarla perché comprende che clima e ambiente sono il “main issue” dei nostri tempi e vuole esercitarvi la sua nascente “affirmative leadership” guardando ai suoi interessi nei paesi emergenti.
Pazienza per il Canada, corpo enorme e piccola testa, specie con l’attuale maggioranza conservatrice. Ma l’“establishment” di Washington non può misconoscere che, per proseguire il metodo Bush di servizio a petrolifero e nucleare, spacca l’area Nafta e perde ulteriori quote di “soft power” mondiale. Né Obama può dimenticare che è presidente anche per le promesse elettorali del suo partito su energia pulita e lotta al riscaldamento.
A Durban lo scontro tra fazioni ha riguardato il “legal outcome” degli accordi climatici. Si è evitato il fallimento perché, al termine di una conferenza estesa di un giorno e mezzo, e di tre notti consecutive insonni, tutti i partecipanti hanno preso l’impegno di un “protocol, another legal instrument or an agreed outcome with legal force under the UNFCCC” (United Nations Framework Convention on Climate Change), da qui alla fine del decennio.
Il sistema internazionale disporrà nel 2020 di uno strumento giuridico per la riduzione delle emissioni climalteranti.