Uscendo dall’aeroporto di Fiumicino si nota, sulla strada verso Roma, un grande cippo bianco. L’iscrizione commemora l’eccidio di tredici uomini della nostra aeronautica militare, l’equipaggio di due C-119 bimotore da trasporto e un tenente medico, avvenuto in Congo, nella zona di Kindu, tra l’11 e il 12 novembre 1961. Gli italiani facevano parte della missione che l’Onu aveva inviato nel paese africano per rispondere alla crisi aperta con la secessione del Katanga di Ciombe, dopo la proclamazione dell’indipendenza congolese dal Belgio del 30 giugno 1960. Il contingente tricolore, espresso da Croce rossa e 46° Aerobrigata Trasporti di stanza presso l’Aeroporto di Pisa San Giusto, era lì da un anno e mezzo, prima missione all’estero con bandiera delle Nazioni Unite della nostra Repubblica dopo i lunghi anni di isolamento del dopoguerra.
Il Congo era già dannato dalla sua ricchezza, senza un assetto politico in grado di difenderla e trasformarla in risorsa per lo sviluppo. Ancora oggi il 45% della popolazione è senza acqua potabile, ma diamanti, oro, stagno, e l’80% delle riserve mondiali di coltan, continuano a stimolare gli appetiti di governanti e speculatori. La vicenda del Katanga va letta dentro questo scenario di intrighi e neocolonialismo. Un esempio fa capire quali interessi stiano sotto tante morti e distruzioni. Nell’agosto ’98, quando ribelli appoggiati dal Ruanda puntano su Kinshasa, il coltan era a circa $40 a kg. Nel febbraio 2000 a $90, a dicembre a $450. I ribelli hanno assunto il monopolio del minerale, strategico per avionica, elettronica, ottica, telecomunicazioni grazie alla resistenza a temperature estreme e corrosione, e alla duttilità per leghe. Appoggiati dal Ruanda, hanno fondato Somigl, e si arricchiscono con i diritti esclusivi di esportazione.
Quel sabato del 1961, i tredici decollano dalla capitale Leopoldville per rifornire la guarnigione malese installata nell’aeroporto di Kindu. Atterrano, scaricano e vanno a mensa. Non sanno delle voci corse in zona sull’imminente sbarco di katanghesi e sull’agitazione che ha invaso i duemila miliziani di Gizenga, acquartierati in città, altrimenti ripartirebbero subito. E’ pomeriggio quando centinaia di miliziani, invasati da alcol e panico, raggiungono la villetta Onu dove i nostri, disarmati, stanno consumando il pasto. Sono convinti che si tratti di mercenari che trasportano armi ai seguaci di Ciombe, e non intendono ascoltare le spiegazioni del maggiore Maud comandante del presidio malese. Uccidono il medico Remotti che tenta la fuga, picchiano selvaggiamente gli altri. Due camion portano il triste carico in centro, e lo gettano in fondo alla via principale. A sera raffiche di mitra finiscono i connazionali ancora in vita, non manca il machete della folla. Il più giovane dei nostri ha ventidue anni, il più anziano quarantadue. I resti, trovati nel febbraio successivo in due fosse del cimitero di Tokolote, sono onorati in marzo a Pisa, presente il presidente Segni, e tumulati nella cappella sacrario eretta all’ingresso dell’aeroporto militare di Pisa.
Con quei corpi martoriati, l’Italia inizia a pagare il suo tributo alla politica di pace e cooperazione internazionale fissata nella costituzione. Possiamo dirci onorati, cosa che non tutte le democrazie sono in condizione di affermare, che elementi delle nostre forze armate mai siano caduti per imporre ad altri popoli volontà di potenza o sfruttamento. I nostri militi e volontari hanno agito all’estero a difesa dei diritti umani e della pace. In questo senso la motivazione della decorazione presidenziale al valor militare attribuita nel 1994 alle vittime di Kindu. In questo senso l’iscrizione apposta sul tempio di Pisa, inneggiante alla “Fraternità” tra i popoli e le nazioni.