Mentre proseguiamo l’impegno militare contro Gheddafi, cade il centesimo anniversario dell’invasione della Libia da parte del duo Savoia-Giolitti.
Avremmo preferito ricordare l’episodio in altro contesto, anche se riflettere su quella pagina aiuta a capire cosa stia succedendo oggi.
All’inizio del secondo decennio del Novecento, il morente impero ottomano estende ancora la sua influenza in Asia centrale, Balcani, Medio Oriente, Nord Africa. Le mire coloniali del novello Stato italiano si scontrano, oltre che
con il tradizionale duopolio franco-britannico, con gli interessi del Divano nei Balcani e nel Mediterraneo. Vittorio Emanuele III, installato nella città dei Cesari con la mentalità del parvenu provinciale, sogna di sedere a tavola con le grandi potenze: per farlo deve esibire possedimenti fuori della penisola. Non tutti sono d’accordo: in Romagna un giovane agitatore anarco-socialista, Benito Mussolini, organizza manifestazioni e scioperi.
E’ il primo ministro Giolitti, maestro di tempismo, a rompere gli indugi, approfittando, con il sostegno dei grandi gruppi finanziari nazionali, del logoramento che la Porta sta soffrendo nel biennio delle guerre balcaniche. In violazione dei poteri che l’art. 5 dello Statuto albertino attribuisce al parlamento, Giolitti e il suo ministro degli esteri Antonino di San Giuliano il 29 settembre 1911 dichiarano guerra alla Turchia, con l’obiettivo di sottrarle Cirenaica e Tripolitania. In ottobre centomila uomini entrano in Libia. Trangugiano la sbronza nazionalista cantando “Tripoli, bel suol d’amore” e strofe triviali come: “Sbalorditi i musulmani stavan tutti a naso ritto / ma d’un tratto a capofitto bombe e fuoco gli arrivò. / Assediato e bombardato sia di sopra che di sotto / Il vil popolo corrotto all’Italia s’inchinò”. Nei rapporti e nelle lettere che arrivavano in Italia, le popolazioni locali sono definite “inavvezze al lavoro” e la terra conquistata “scatolone di sabbia”. Alle due del mattino dell’11 ottobre trecento otto- mani attaccano la fortezza Boumelians per tagliare la condotta che dà acqua a Tripoli, ma sono respinti dai duecento marine del maggiore Cagni. La città è calma, gli arabi che accettano con simpatia il cambio di regime: il 5 novembre lo scatolone è italiano. La pace di Losanna del 18 ottobre 1912 ne impone ai Turchi la cessione formale.
Nell’aggredire quelle tribù l’Italia non era peggiore delle altre nazioni europee. Celebrando il suo primo mezzo secolo di vita unitaria, praticava i vizi dell’epoca, come hanno riconosciuto in pubblico i nuovi leader libici la scorsa settimana. Il paese mancava di spazi e terreno agricolo, un bisogno che neppure la massiccia emigrazione post-unitaria aveva riequilibrato. Era povero, con un’agricoltura di sussistenza e macchie di industrializzazione, ma sciaguratamente ambizioso.
Le forti disponibilità finanziarie che venivano dalle rimesse degli emigrati avrebbero dovuto essere utilizzate per lo sviluppo, specie al sud, ma i ceti dirigenti avevano ben altro per la testa. Furono anche commessi crimini che una nazione che si proclamava cristiana avrebbe dovuto evitare. Il tronfio razzismo di regime fu il prologo ideologico e culturale ai campi di concentramento nel deserto della Sirte, ai plotoni di esecuzione che fucilavano anche ragazzini, alla ferocia o alla corruzione con cui furono trattati i capi tribali.
Si noti il ruolo interventista del re nell’impresa coloniale. I sabaudi vengono da una storia di caserma e non hanno fatto mai molto per nasconderlo.
Documenteranno la stessa bellicosità nel decidere l’ingresso nella Prima Guerra Mondiale e l’aggressione, negli anni ’30, dell’Etiopia, per finire coerentemente nelle braccia del più convinto militarismo europeo, quello germanico. E sarà tragedia.