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September 18, 2011
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IL COMMENTO/Tartufo all’italiana

Giulio AmbrosettibyGiulio Ambrosetti
Time: 5 mins read

 Il premier Silvio Berlusconi

C’è un limite alla decenza? In Italia a quanto pare, no. Non riesce a limitarsi il capo del governo, Silvio Berlusconi, almeno quando si tratta di donne. E non riescono a limitarsi i suoi avversari – o forse detrattori, come li chiama lui – sempre pronti a tirare fuori nuove intercettazioni telefoniche ‘piccanti’ con l’ormai solito contorno di soldi, tanti soldi, che il Cavaliere non esita ad elargire a chi "ha bisogno". E pazienza se "chi ha bisogno" qualche volta – o forse più di una volta – guarda caso, coincide con chi allieta le serate dello stesso Berlusconi. Con il corollario, ovviamente, di belle donne.
In Italia, così si dice da sempre, i quotidiani che si occupano di gossip – piuttosto diffusi nel mondo anglosassone – non hanno mai avuto molti lettori. Il Belpaese, quando si tratta di certi argomenti – corna, alcove e serragli vari – preferisce i settimanali. Da qualche anno a questa parte, però, tanti quotidiani italiani, a cominciare dai più diffusi, inseguono le escort di un Berlusconi che, come il celebre Don Giovanni di Mozart, non si pente. Puntuto, indispettito, risentito per l’interesse quasiossessivo che la stampa riserva alle ‘femmine’ & ai soldi che infiammano le sue notti, il Cavaliere insiste nel voler coniugare ciò che non è coniugabile e nel voler declinare ciò che non è declinabile. Se qualcuno cerca di spiegargli che un presidente del Consiglio non dovrebbe cercare, ogni giorno (anzi, ogni notte), di battere il record del ‘mitico’ Califfo di Cuccubello, lui ribatte che, al calar della sera, dopo una giornata di intenso lavoro, ha il diritto di ‘rilassarsi’. Parola, questa, che fa a pugni con le serate organizzate nelle ormai celebri ville.
Ognuno, sotto le lenzuola, può fare quello che vuole. Principio giustissimo e sacrosanto. Solo che quando si ricoprono cariche pubbliche – ad esempio, quando si rappresenta la settima potenza industriale del mondo, come nel caso di Berlusconi – bisognerebbe avere il buon senso di evitare di prendere il telefono, invitando il funzionario di Polizia di turno di una casuale città italiana a rilasciare una ragazza minorenne "perché nipote di Mubarak" (per non parlare del fatto che la ragazza in questione non era, ovviamente,la nipote dell’allora leader egiziano). Berlusconi si difende. E ribatte che le intercettazioni che lo ‘beccano’ regolarmente in queste scene brancatiane sono "illegali": e magari ha pure ragione. Ma non si rende conto che il capo di un governo non può fare quello che fa lui, e che il problema non sta soltanto nelle intercettazioni illegali, ma anche in quello che lui combina ogni giorno (pardon: ogni notte…). Al di là dei magistrati che vorrebbero interrogarlo contro il suo parere, al di là delle donne che gliela ‘danno’ e di quelle che non gliela ‘danno’ e, volendo abbondare, anche al di là del bene e del male, il Cavaliere, di certo senza rendersene conto, sembra ricalcare, almeno per certi singolari aspetti, un celebre personaggio di una commedia di Molière: Tartufo. Il quale, nel motivare le proprie immorali ragioni, a un certo punto, in un dialogo un po’ surreale, regala agli abitanti di questa terra una pietra miliare di immorale moralità (o, se si preferisce, di moralità immorale ): "E’ il pubblico scandalo che offende la morale e peccare in segreto è come non peccare…". Così parla Tartufo: e così Berlusconi vorrebbe che per lui andasse la sua vita: per lui non hanno importanza le sue ‘gesta’ notturne, le sue telefonate ora ammiccanti (quando ci sono di mezzo le donne), ora in codice (quando ci sono di mezzo i soldi): per lui è importante che queste cose, legge alla mano, non vengano fuori. E se la legge a lui gradita non c’è, ecco che prova a farsene confezionare una per mettere la mordacchia ai giornalisti (leggere disegno di legge sulle intercettazioni: che potrebbe essere magari una legge giusta, là dove si proporrebbe di tutelare la vita privata di cittadini che nulla hanno a che fare con le indagini giudiziarie, ma che avrebbe poco senso, però, se tirata fuori solo per il Cavaliere). Un maldestro tentativo bloccato qualche giorno fa – e a ragione – dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. In attesa di vedere come finirà il duello che i magistrati e il Cavaliere, c’è anche da commentare il comportanento dei magistrati verso altri soggetti della vita politica italiana. Nel caso di Filippo Penati – e questa è storia dei nostri giorni – si registrano fatti un po’ strani. Prima la vicenda dell’autostrada di Serravalle, inchiesta un po’ ‘addormentata’ dalle parti di Milano e poi – sempre per gli stessi fatti – tornata alla ribalta grazie alla Procura della Repubblica di Monza. Quindi – sempre con riferimento a Penati, esponente di spicco del Pd milanese – l’ipotesi di reato che viene cambiata: cosa, questa, che gli ha risparmiato l’arresto. Domanda: se Penati non fosse stato un esponente del Pd e, magari, fosse stato un dirigente del Pdl, il comportamento della magistratura sarebbe stato lo stesso? Ancora più inquietante quello che avviene in questi giorni in Sicilia. Dove le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa rivolte al presidente della Regione, Raffaele Lombardo, sono state derubricate in un ipotesi di reato minore. Tutto questo è stato fatto dal procuratore della Repubblica di Catania facente funzione e non dal procuratore titolare. Grazie all’intervento di questo procuratore facente funzione, Lombardo non verrà mai giudicato per un reato – mafia – che pure era stato ipotizzato da ben quattro sostituti procuratori. Il tutto mentre il Consiglio superiore della magistratura, ormai da lunghi mesi, si guarda bene dal nominare il titolare della procura, cioè il procuratore della Repubblica.
Un caso? La vicenda, lo ripetiamo, è già singolare di per sé, perché è difficile, se non impossibile, rintracciare un procuratore facente funzione che smentisce clamorosamente il lavoro di ben quattro sostituti procuratori. Ma diventa, per l’appunto, inquietante se si cosidera che Lombardo, eletto presindente della Regione siciliana da uno schieramento di centrodestra, ha effettuato il più classico dei ribaltoni, mettento fuori dalla giunta i partiti di centro-destra e ‘imbarcando’ nel governo il Pd.
Basta questo per invertire certe storie giudiziarie? La domanda è legittima, vista l’evolizione, tre anni fa inimmaginabile, della vicenda giudiziaria che coinvolge il presidente della Regione, Lombardo e suo fratello. Un’evoluzione che non getta soltanto ombre sulla procura della Republica di Catania, ma che finisce per giustificare – purtroppo – quanti sostengono che in Italia la legge non è uguale per tutti.
Non è uguale per Berlusconi (più nella sua testa che in quella dei magistrati); e non è uguale per altri soggetti che non c’è bisogno di citare.
E la verità? Non c’è bisogno di cercarla perché, come ci ricorda Camus, "si manifesta giorno dopo giorno…

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Giulio Ambrosetti

Giulio Ambrosetti

Sono nato a Palermo, ma mi considero agrigentino. Mio nonno paterno, che adoravo, era nato ad Agrigento. Ho vissuto a Sciacca, la cittadina dei miei genitori. Ho cominciato a scrivere nei giornali nel 1978. Faccio il cronista. Scrivo tutto quello che vedo, che capisco, o m’illudo di capire. Sono cresciuto al quotidiano L’Ora di Palermo, dove sono rimasto fino alla chiusura. L’Ora mi ha lasciato nell’anima il gusto per la libertà che mal si concilia con la Sicilia. Ho scritto per anni dalla Sicilia per America Oggi e adesso per La Voce di New York in totale libertà.

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