In anni lontani, quando cercavo disperatamente un posto nel mondo di quella che si chiamava "la carta stampata", mi capitò di lavorare per un certo tempo alla Rai. Rimbalzavo come una palla da tennis fra gli uffici di Viale Mazzini e gli studi di Via Teulada; mi imbestialivo di fronte al mostruoso disordine per cui se ti serviva una moviola per montare un servizio o uno studio per registrare il testo dovevi districarti fra mille difficoltà e violare mille norme al grido di "per lavorare per la Rai bisogna lavorare contro la Rai" e mentre continuavo a sognare che prima o poi uno straccio di giornale si degnasse di mettermi alla prova, pur sentendomi un po’ estraneo partecipavo all’attività sindacale. Fu così che imparai la "particolarità" della Rai rispetto a tutte le altre aziende italiane che producevano automobili, frigoriferi, penne a biro, pentole, chitarre e tutto ciò che possa venirci in mente.
La particolaità era che quelle aziende sfornavano prodotti "economici", mentre il prodotto della Rai era "culturale" (un po’) e "politico" (molto di più). La conseguenza era che anche le rivendicazioni dei lavoratori erano "particolari" perché ogni volta che si apriva un contenzioso con l’azienda (per un ritocco agli stipendi, per il riconoscimento di un diritto, per l’abolizione di una norma considerata iniqua, eccetera), si finiva sempre a scivolare sul problema del "prodotto politico" che riguardava i lavoratori della Rai ma molto, molto di più i cittadini italiani che avevano diritto a una informazione imparziale e una cultura onesta. Cosa che la Democrazia Cristiana, allora dominante, non possedeva orecchie abbastanza sensibili da captare quell’esigenza.
Poi, quando finalmente un giornale decise di mettermi alla prova e il risultato fu positivo, le mie rimostranze nei confronti della Rai cessarono di essere quelle di un suo dipendente e cominciarono ad essere quelle di un cittadino. E come tale seguii da cittadino e spettatore, seppure molto interessato, gli aggiustamenti economici che andavano di fatto a braccetto con quelli politici. Seppure con una lentezza esasperante, l’evoluzione ci fu, le cose in Rai andarono sempre migliorando fino ad arrivare alle tre reti che pur raccordandosi – certo – a diverse forze politiche, avevano comunque messo in piedi una specie di "pluralismo". La Rai continuava a "non essere la BBC", come si cantava in un programma radiofonico guidato con successo da Renzo Armore e Gianni Boncompagni, ma era innegabile che gettando uno sguardo al passato la differenza con il tempo democristiano era talmente abissale che chiunque poteva sentirsi rincuorato.
Il precipitoso ritorno indietro è avvenuto con l’associazione micidiale di due personaggi che sembrano nuovi ma sono vecchissimi. Uno si chiama Silvio Berlusconi, l’altro Augusto Minzolini. Il primo – il padrone – ha della Rai la stessa idea proprietaria che avevano i democristiani di tanti decenni fa. Il secondo – il servo – ha del potere politico la stessa idea che avevano i timorosi giornalisti di quel tempo. Uno di loro, Ugo Zatterin, la sera del 20 febbraio 1958 era stato incaricato di dare la notizia che la Legge Merlin (che stabiliva la chiusura dei bordelli) era stata approvata. Siccome l’argomento era "delicato", le istruzioni che Zatterin aveva ricevuto – lo raccontò anni dopo con un senso dell’umorismo che fece sbellicare l’Italia intera – erano che non dovesse pronunciare le parole "bordello" e "prostituta". Cercò di barcamenarsi come poteva, ma in pratica nessuno riuscì a capire in che diavolo consistesse la Legge Merlin.
Ai giorni nostri, l’analogia è terrificante. Fra una censura là, un taglio qua, una parola saltata su, una parola inserita giù, è come se ogni sera ci fosse una misteriosa Legge Merlin. Nella foga di servire al massimo il suo padrone, lo scodinzolante Minzolini ha reso il giornale che dirige in un inguacchio incomprensibile, con il risultato che la particolarità della Rai di cui si diceva è semplicemente scomparsa. Il prodotto economico e quello politico sono ormai la stessa cosa, con gli stessi guai e con la stessa, urgente necessità che qualcuno faccia qualcosa. Proprio perché è incomprensibile, accade che il TG1 continui a perdere telespettatori. E se diminuiscono quelli che lo guardano, diminuiscono anche quelli che poi rimangono a guardare i programmi successivi (il famoso "traino"). Il che fa sì che diminuisca la vendita di spazi riservati alle inserzioni pubblicitarie e che diminuiscano – a causa del calo della domanda – anche le loro tariffe.
Qualche tempo fa si parlava del "costo" di Minzolini per via del suo disivolto uso della carta di credito aziendale che ora, a quanto se ne sa, è perfino sotto l’osservazione della magistratura. Ma per truffaldina che possa essere l’abitudine di farsi pagare dall’azienda i suoi viaggi di vacanza, il calo del gettito pubblicitario è infinitamente più serio. Secondo i conti fatti dai funzionari Rai, la diminuzione delle inserzioni pubblicitarie e l’abbassamento del prezzo di quelle che ancora rimangono ha comportato una diminuzione degli introiti per circa 10 milioni di euro. A questo punto, la necessità che uno così venga sostituito non deriva più soltanto dalla perdita di prestigio del TG1 (che comunque sarebbe bello che fosse una ragione valida), ma anche dal semplice, bruto, maledetto problema di cassa. Sconfitto sulla decenza professionale, sconfitto sui risultati economici. Complimenti, direttore.