Se fossero un po’ più informati della storia politica italiana, in questo momento gli uomini della "maggioranza che regge" sarebbero impegnati a congratularsi l’un l’altro per la caduta in disuso della cosiddetta prima Repubblica. Loro non lo sanno perché questi sono tempi in cui si legge molto poco, ma se un governo di quel tempo avesse preso una paio di schiaffoni come quelli che le elezioni amministrative e i referendum hanno depositato sulle guance di Silvio Berlusconi, le dimissioni dell’allora presidente del Consiglio sarebbero state praticamente automatiche e lo svolgimento della crisi conseguente avrebbe "partorito" un presidente nuovo.
Vecchie norme. Viene da dire che era il modo di funzionare della prima Repubblica che non ha niente a che fare con quella di adesso. Ma non è vero perché le norme che c’erano allora erano esattamente le stesse che ci sono adesso. Non c’era e non c’è nessuna norma che consideri compartimenti stagni le elezioni aministrative e quelle politiche e i referendum. Non c’erano allora e non sono adesso. Se Berlusconi non fa "nianca un plissé", per dirla alla Enzo Jannacci, di fronte ai due schiaffoni di cui si diceva, non vuol dire che sono cambiate "le cose". As essere cambiato è il costume, e non per il meglio.
Negli anni Settanta Amintore Fanfani spinse alla crociata contro il divorzio. Era stata promulgata una legge che riconosceva quel diritto e il capo di allora della Democrazia Cristiana, un po’ per il suo impulso di cattolico osservante e un po’ per obbedire agli ordini di un Paese straniero chiamato Vaticano, lanciò un referendum con l’intento di annullare la legge appena varata. Fu una battaglia dura e vivacissima e lui vi si lanciò con tutta l’anima. E quando i votanti lo spinsero nell’angolo della sconfitta non ci pensò un momento a trarne le conclusioni. Si dimise da leader della DC e al suo posto fu eletto Benignio Zaccagnini.
Qualche anno più tardi, a causa di una mossa della sinistra infantile che aveva messo in minoranza il governo Prodi, l’Italia si ritrovò guidata da un governo che più buffo non si poteva. Presidente del Consiglio: Massimo D’Alema. Nume tutelare: Francesco Cossiga. Elemento chiave: Clemente Matella. La situazione, alquanto imbarazzante, non aspettava che l’occasione per chiudere. E l’occasione arrivò a cavallo di un’elezione amministrativa. La sinistra beccò una batosta tremenda e D’Alema, riconoscendo la propria responsabilità, si dimise.
Un’elezione amministrativa e un referendum: proprio i due eventi che hanno risvegliato gli italiani dal torpore, che hanno messo a nudo i buffoni della Lega Nord e che hanno tolto a Berlusconi la voglia di raccontare barzellette. Lui però non schioda. Fanfani e D’Alema non erano precisamente due Thomas More, ma né l’uno né l’altro hanno avuto bisogno che gli si facesse notare che era ora di farsi da parte. Berlusconi no. Lui si gloria dei voti che sono costati nove sottosegretariati e fa finta che sia una maggioranza "vera", cementata da un consenso "convinto" e alimentata da idee "politiche", ben sapendo che nessuno di quei tre concetti, in quel mercato delle vacche che è diventato l’agone politico italiano, dispone di quella dose minima di decenza, indispensabile affincé uno abbia la possibilità di guardare dritto in faccia gli altri.
Quegli omuncoli che aiutano il governo a "sopravvivere" non hanno la minima idea di ciò che il governo intenda fare. Non lo sanno e non sono interessati a saperlo. Percepiscono ogni mese una somma equivalente a un anno di lavoro "normale", sono felici e la loro più intensa preoccupazione "politica" è che la legislatura viva fino alla sua scadenza naturale, nel 2013. Non perché siano paladini della stabilità politica ma perché vogliono che la loro pacchia duri il più a lungo possibile. Senza contare che l’arrivo in porto nel 2013 comporterà per loro anche una lauta pensione, che dalle loro parti si chiama "vitalizio". Negli ultimi giorni, si racconta a Montecitorio, quella parolina è ripetutissima fra quei valorosi legislatori.