A sinistra Sala d’Ercole, sede del Parlamento siciliano
(seconda parte – la prima parte é stata pubblicata il 15 maggio)
Nei giorni scorsi il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha accusato le classi dirigenti del Sud d’Italia di non sapere spendere “le risorse finanziarie che hanno a disposizione”. Il ministro faceva riferimento ai fondi europei (ingenti risorse che l’Unione Europea stanzia per le regioni svantaggiate). Ma anche ai Fas, sigla che sta per Fondi per le aree sottoutilizzate (soldi dello Stato che, per l’85 per cento, dovrebbero essere impiegati nel Mezzogiorno).
L’analisi di Tremonti è giusta e, contemporaneamente, sbagliata. In quest’ossimoro si consuma l’odierno dramma del Sud d’Italia: il dramma di un’area del Paese dove alla disoccupazione ormai alle stelle (solo in Sicilia si contano 700 mila disoccupati su una popolazione di 5 milioni di abitanti) si somma una storica carenza di infrastrutture. Dentro questo Meridione d’Italia ‘malato’, dove l’arretratezza è la regola generale, la Sicilia tiene alta la bandiera di un sottosviluppo che è economico e culturale insieme.
La scorsa settimana, nella prima puntata del nostro ‘viaggio’ tra i conti pubblici che non tornano della Sicilia, abbiamo descritto, per sommi capi, la situazione finanziaria delle società per azioni controllate o, in generale, partecipate, dalla Regione siciliana. Ebbene, dal quel poco che è dato sapere, le passività di queste società ammonterebbero a 5 miliardi e 800 milioni di euro. I numeri li ha forniti Cateno De Luca, unico su 90 parlamentari di sala d’Ercole (la sede del parlamento siciliano) che sta cercando, tra mille difficoltà, di fare luce sui disastri finanziari della Sicilia.
A questi 5 miliardi e 800 milioni di euro di deficit (ricordiamo che si tratta solo di una stima, perché l’indebitamento di queste società regionali potrebbe essere maggiore) si aggiungono altri 2 miliardi di euro di ulteriore deficit. Nel complesso – e la stima, lo ripetiamo, potrebbe essere in difetto – la Regione siciliana autonoma (la Sicilia, lo ricordiamo ai lettori americani, è una delle cinque regioni autonome dell’Italia) ‘viaggia’ su un deficit pari a circa 7 miliardi e 800 milioni di euro. E si tratta – e qui sta la gravità del problema – di un deficit strutturale: cioè di un deficit che, qualora venisse sanato per quest’anno reperendo da qualche parte 7 miliardi e 800 milioni di euro, si riproporrebbe, tale a quale, il prossimo anno e negli anni succeessivi. In pratica, in un Paese ‘normale’ la Sicilia sarebbe già in dissesto finanziario.
E qui torniamo alle considerazioni di Tremonti sul Sud “che non sa spendere le risorse finanziarie che ha a disposizione”. Il ministro ha ragione se si riferisce ai fondi europei (la Sicilia può contare su oltre 6 miliardi di euro di risorse voluti da Bruxelles, ma dal 2000 ad oggi non è riuscita a spendere nemmeno il 10 per cento di tale stanziamento). E ha ragione anche se fa riferimento all’uso corretto dei Fas.
Per la cronaca, sia i fondi europei, sia i soldi del Fas devono essere utilizzati per la realizzazione di infrastrutture nelle regioni del Sud d’Italia, per colmare il divario infrastrutturale tra lo stesso Sud e il Centro Nord del Paese. Ed è anche logico, perché nel Mezzogiorno, come già ricordato, mancano proprio le infrastrutture. Ma alle classi dirigenti siciliane, o presunte tali, le infrastrutture non interessano affatto. Alla classe politica siciliana – di ieri e di oggi – interessa soltanto utilizzare i soldi pubblici per fini clientelari. Un giudizio troppo netto? Non esattamente. E i numeri (e i fatti) stanno lì a dimostrarlo.
Nella prima puntata di questa nostra inchiesta abbiamo raccontato che, dal 2002 ad oggi, le società per azioni controllate dalla Regione hanno assunto, per chiamata diretta, 10 mila persone. E si tratta di figli, figlie, mogli, mariti, fratelli, nipoti e persino amanti dei politici di tutti i partiti. Diecimila persone che, ogni mese, prendono lo stipendio a carico della Regione siciliana senza produrre assolutamente niente. Come il ministro Tremonti può notare, non è vero che la Sicilia non sa spendere i fondi pubblici che ha a disposizione. Li spende, anche se in modo folle.
Già, la follia. Nella puntata precedente abbiamo citato una celebre raccolta di saggi di Leonardo Sciascia dal titolo: “La corda pazza”. Sciascia, che di Luigi Pirandello era un profondo conoscitore ed estimatore, non ha scelto a caso il titolo di questo suo peraltro bellissimo libro.
L’idea di Sciascia deriva, infatti, da una celebre commedia di Pirandello: “Il berretto a sonagli”, dove il grande drammaturgo siciliano di Agrigento teorizza la presenza, nella mente umana, di tre corde: la corda “seria”, la “civile” e, infine, la corda “pazza”. Le prime due dovrebbero essere quelle del ragionamento, mentre la terza corda – la “pazza” – guida gli uomini verso le scelte folli o apparentemente tali.
Attenzione al concetto di ‘apparenza’. Perché il confine tra “normalità” e “pazzia”, in Pirandello, è labile e problematico. Non è certo uno caso se uno dei personaggi de “Il berretto a sonagli”, pur di non apparire agli occhi del mondo per quello che, in realtà, è – e cioè un “becco”, detto altrimenti cornuto, appunto perché cornificato dalla moglie – fa di tutto, spalleggiato in questo da una società che “condivide” la sua trovata, per far passare per matta la donna che ha raccontato a tutti che lui è un cornuto. Se la donna che mi ‘dipinge’ come cornuto è matta ed è ‘accettata’ come tale da tutta la società – questa la riflessione del protagonista ‘cornuto’ e questa è anche la ‘morale’ della commedia pirandelliana – io, benché cornuto, non sono più cornuto, perché la “pazzia” della donna che ha reso di dominio pubblico le mie corna annulla le mie stesse corna.
La corda “pazza” di Pirandello è, di fatto, il motivo conduttore dell’attuale governo della Regione siciliana. Nei conti pubblici della Regione, come abbiamo detto, c’è un ‘buco’ di quasi 8 miliardi di euro (che su un bilancio di circa 27 miliardi di euro è quasi un terzo degli stanziamenti che manca all’appello). Però lo stesso governo ha ‘deciso’, pirandellianamente, che il ‘buco’ non c’è. Sostenuto, in questo, da una società siciliana che, al pari della società che ruota attorno ai protagonisti de “Il berretto a sonagli”, ‘accetta’ di non accettare una realtà che è nei fatti. Lo ha ‘accettato’ il parlamento siciliano, che ha approvato il bilancio facendo finta che il ‘buco’ non c’è. Lo hanno ‘accettato’ gli organi dello Stato chiamati a verificare i conti della Regione e la costituzionalità di questa legge di bilancio con i ‘buchi’.
In questa ‘tela’ pirandelliana, di certo senza volerlo, è caduto lo stesso Tremonti, quando ha inserito d’ufficio la Sicilia tra le regioni del Sud d’Italia che “non spendono le risorse che hanno a disposizione”. Certo, la Sicilia non ha speso i fondi europei e ha utilizzato in minima parte le risorse Fas 2000-2006 (e in questo potrebbe essere, sempre pirandellianamente parlando, una Regione “cornuta e mazziata”). Ma, in compenso, ha speso quasi 8 miliardi di euro senza averli (e, infatti, nel bilancio non ci sono).
Dunque, sempre pirandellianamente parlando, se non ha speso le risorse finanziarie che ha a disposizione (i fondi europei e il Fas), ma ha speso i soldi che non ha (gli 8 miliardi circa di ‘buco’) lo stesso ‘buco’ non c’è più, perché le due cose pirandellianamente si elidono.
E sapete qual è la cosa più bella di questa storia che, a nostro modesto avviso, rischia di non avere un lieto fine? La cosa più bella è che, adesso, la Regione siciliana retta dal presidente, Raffaele Lombardo, vorrebbe utilizzare le risorse del Fas, che dovrebbero servire per gli investimenti (cioè per realizzare le infrastrutture che mancano), per pagare una parte del ‘buco’ (uso scorretto dei Fas). Una follia che non servirebbe a nulla perché, come abbiamo già sottolineato, quello della Sicilia è un deficit strutturale. Ciò significa che pagando con i Fas – come vorrebbe il governo Lombardo – 600 milioni di euro per la sanità di quest’anno, il prossimo anno lo Stato dovrebbe versare nelle ‘casse’ della Regione altri 600 milioni di euro. E altri 600 milioni di euro nel 2013. E poi ancora nel 2014 e via continuando all’infinito. L’ennesima follia.
E poiché sulla ‘testa’ della Sicilia,oggi più che nel passato, campeggia ormai “Il berretto a sonagli”, ecco un altro paradosso di questi giorni. Dopo un tira e molla durato quattro-cinque anni è già pronto il provvedimento per mettere in pratica il credito d’imposta. Ovvero sgravi fiscali per chi investe in Sicilia e sconti su tasse e contributi per gli imprenditori. La Regione vara il provvedimento con i soldi dello Stato. A Roma rispondono: il provvedimento è vostro, pagatelo con i vostri soldi. Contro replica della Sicilia: noi non abbiamo i soldi. Come mai? Perché se pirandellianamente il ‘buco’ non c’è più nella realtà esiste.
Altro particolare (pirandelliano): proprio nello stesso giorno in cui la Regione siciliana blocca il credito d’imposta per mancanza di soldi, la stessa Regione autorizza l’assunzione, per due anni, di mille disabili e 3 mila svantaggiati. A pagarli sarà la stessa Regione con 700 euro a testa al mese. Costo dell’operazione: 50 milioni di euro. Scadenza: 2013. Proprio quando si voterà per le elezioni regionali. E chi, tra due anni, si rifiuterà di assumere per sempre mille disabili e 3 mila svantaggiati?
Morale (sempre pirandelliana, ovviamente): altri 4 mila posti di lavoro (finti) a spese della collettività. Mentre le imprese (vere), che chiedono il credito d’imposta possono pure attendere.
Amaro il commento del solito bastian contrario, Cateno De Luca: “Non è consolante dover dire che avevo ammonito il governo Lombardo dal fare un bilancio falso perché costruito, in larga parte, su entrate inesistenti (i mitici fondi Fas). La vicenda del credito di imposta ne è l’ultima dimostrazione”.
Intanto Lombardo se l’è presa con Tremonti. “Mentre da voi si raccoglievano le radici con le mani – ha mandato a dire al ministro – da noi si scolpivano statue”. Peccato che mentre oggi nel Nord Italia di Tremonti,, nonostante la crisi planetaria, ci sono imprese vere e veri posti di lavoro, in Sicilia c’è la Fiat di Termini Imprese che chiude i battenti e ci sono le imprese finte pagare con i soldi dei contribuenti. Ma questi, in Sicilia, sono solo ‘dettagli’. O no?
ambrosettigiulio@libero.it