Il Presidente francese Nicolas Sarkozy con il Premier italiano Silvio Berlusconi il 19 marzo scorso all’Eliseo
Può darsi che il turgore missilistico francese tragga estemporaneo alimento dalle ansie elettorali di Sarkozy, ignaro d’altro che non sia la sua ansimante giornata. E può darsi che l’aggiustamento italiano sulla catena di comando delle operazioni in Libia (peraltro benedetto da Napolitano), rifletta solo l’estro intuitivo con cui Berlusconi, ineffabilmente, attraversa cognizioni che non ha, confronti che aborre, protocolli che irride. Ma sotto il velo effimero dei minuti e delle ore è agevole riconoscere il corpo solido e radicato degli anni e dei decenni. E riannodare un filo ad una trama restituisce complessità e, perciò, anche senso e affidamento. E qual è la trama? E’ quella della guerra italo-francese a lungo combattuta in Nord Africa, secondo le regole non scritte, ma limpide e reciprocamente accettate, delle sfere di influenza, degli interessi d’area, degli “spazi vitali”. Sì, proprio quelli. L’abbiamo combattuta per più di cinquant’anni questa guerra: e la si combatte ancora oggi, sul terreno scivoloso ed equivoco di Maastricht e dell’Euro, con le mine vaganti di regole asimmetriche ed equivoche, come quella degli “Aiuti di Stato”. Cosicché, solo per stare agli ultimi giorni e mesi, Lactalis su Parmalat e Luis Vuitton su Bulgari, sì, Enel su Gaz-France, no. Se poi, appena appena, sogguardiamo gli ultimi anni, gli undici settori strategici di Chirac sì (il suo Decreto è del 2005), l’italianità no (con il sarcasmo confluito in degnazione sussiegosa, quando gli ascari locali di Air France dovettero ripiegare sul fronte Alitalia).
Ma torniamo al Nord Africa, alla guerra guerreggiata e alla Francia. Dunque, con Parigi, andiamo avanti a calci e sgambetti da oltre mezzo secolo. Ma l’ostilità aveva scaturigini più antiche. Nel 1911 eravamo ancora in fasce e, avviatosi il disfacimento dell’Impero Ottomano, le sue ricche spoglie divennero subito prede indifese. Londra si prese l’Arabia Saudita, la Giordania, l’Iraq, che aggiunse all’Egitto e al Sudan; Parigi, la Siria, il Libano, aggiunti al Marocco, all’Algeria, alla Tunisia. Erano forti, Londra e Parigi, e nel 1904, con l’Entente cordiàle, s’erano già riconosciuti le reciproche sfere di influenza. A noi non restò che la Libia. Pareva poca cosa. Solo che quello scatolone di sabbia era anche pieno di petrolio e di uranio. E così, con Giolitti, andammo in Libia. Eravamo giovani e, come spesso accade ai giovani, non avevamo le idee chiare. Oscillavamo: fra interventismo e neutralità, fra la Triplice Alleanza (Germania, Austria-Ungheria, Regno d’Italia) e l’Intesa con Francia e Inghilterra. Conclusa la Prima Guerra Mondiale, a fianco di queste ultime, ci accorgemmo ben presto che il Trattato di Versailles si era fatto beffe delle nostre legittime aspettative. Funzioniamo meglio con il laccio e con il veleno, più che con i cannoni e con le baionette. Così, per reagire, avevamo cominciato a fomentare i malumori verso gli inglesi. Nacque allora l’Italia filoaraba. Ed è un tratto genetico essenziale per comprendere gli svolgimenti storici successivi.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, eravamo stati, letteralmente, buttati a mare. Persa la Somalia, persa l’Eritrea, persa la Libia. Sembrava fosse finita con l’Africa e col Medioriente. E invece, dalla disfatta militare, comincia un’altra storia, in cui abbiamo dato il meglio nella nostra plurisecolare arte politico-diplomatica, quella che noi abbiamo inventato, scongelando il germe di Marco Polo e perfezionandola dal Rinascimento in poi. Sono gli anni di Mattei. Gli accordi 50/50, Suez, e poi la Guerra D’Algeria e il nostro sostegno agli insorti, il controllo (politico e commerciale, s’intende) di Malta e di Cipro, l’Eni pirata buono del Mediterraneo. Nel 1962 Mattei viene ucciso. Ne raccoglie l’eredità Moro. Viene il 1969: fuori Re Idris, dentro Gheddafi. Facciamo tutto noi. E torniamo in Libia. L’Inghilterra non ci sta e, nel 1971, prova a rovesciare il Colonnello. Ma l’operazione Hilton fallisce, la sabotiamo noi. I nostri crediti crescono e non solo verso Gheddafi. Anche agli Stati Uniti piace il nostro attivismo. Tiene a bada Londra e Parigi. E ci riconoscono il Comando NATO nel Mediterraneo meridionale, affidato all’Ammiraglio Gino Birindelli. Nel 1975 la Libia invade, nel Ciad settentrionale, la striscia di Aouzou, ricca di uranio e, probabilmente, di immensi giacimenti petroliferi ancora inesplorati. La guerra nel Ciad si protrae fra continue fluttuazioni al potere, ora in mano alla fazione filolibica di Gukuni Uddei, ora in mano a quella filofrancese di Hissenè Habrè. Fino al 1980. Anno cruciale. L’anno di Ustica. I Francesi dislocano forze ingenti in quell’area. La Libia chiede aiuto all’Italia. E l’aiuto arriva: la Siai-Marchetti gli aveva già venduto aerei da addestramento SF 260; ora servivano avieri istruttori per le giovani ed inesperte reclute libiche. La ASI (Aereo leasing italiana), società di servizi del settore, invia una sessantina fra ufficiali e sottoufficiali d’aviazione in congedo. I canali, ovviamente, non sono quelli formali. Il reclutamento avviene tramite un’agenzia, operante per conto del governo libico. Inoltre, alcuni di questi ufficiali partecipano, a titolo personale, ai bombardamenti libici sulle forze francesi schierate in Ciad. A titolo personale. Che in quei contesti, in cui non si giunge certo con la corriera, è un modo per dire che uno Stato c’è ma non si vede; o meglio, non si deve vedere. Ancora. I Mig libici volavano per le riparazioni fino alla base jugoslava di Banja Luka e alle officine di Venezia-Tessera, dove pure venivano “militarizzati” gli C-130 del Colonnello, trasformati in aerei da trasporto per paracadutisti. In costanza di embargo. Sicchè, nel CIAD, Italia e Francia sono state in guerra. Ma solo nel Ciad? Nel Gennaio di quello stesso anno, fuoriusciti tunisini addestrati in Libia occuparono il centro minerario di Gafsa, non lontano da Tunisi, con l’obiettivo di rovesciare il governo filofrancese di Habib Bourguiba; la sortita fallì. Ne seguirono manifestazioni antifrancesi in tutte le città libiche, culminate nella rottura delle relazioni diplomatiche fra Tripoli e Parigi. Più o meno nello stesso torno di tempo, Gheddafi si era ufficialmente rivolto agli abitanti dell’isola di Reuniòn, perché costituissero un movimento di liberazione antifrancese. In quegli anni Gheddafi, se non era un nostro protegèe, era qualcosa che vi assomigliava. Sicchè i suoi movimenti, quando non erano sostenuti, come minimo erano noti e non invisi all’Italia. E questo la Francia lo sapeva, ovviamente. Il 27 Giugno viene abbattuto il DC9 Itavia sui cieli di Ustica. Per ritorsione? No, per errore: l’obiettivo era Gheddafi. Dai Francesi? E’ molto probabile. Cossiga lo disse apertamente.
Questo, evidentemente, può essere stato il momento peggiore nella guerra italo-francese in Nord Africa. Ma non l’unico, né l’ultimo. Nel 1987 a Tunisi, il Primo Ministro Bourguiba, filofrancese, venne allontanato dalla carica “per motivi di salute” e il suo posto fu preso da Ben Alì, suo ministro con univoche simpatie italiane. Fu un colpo di stato, a cui non fummo indifferenti, come ammise l’Ammiraglio Fulvio Martini, all’epoca direttore del Sismi. Ancora negli anni Ottanta abbiamo ripetutamente chiuso un occhio, talvolta entrambi, sull’installazione, nel nostro territorio, di emittenti radio di indipendentisti corsi, non lesinando, probabilmente, su altro tipo di sostegno.
Tutto questo rameggia in questi giorni. Tutto questo pare ignorato da una polemica mediocre e invertebrata, che sembra felice di compromettere un patrimonio di sapienza politica, culturale e identitaria faticosamente e proficuamente costruito nel corso della vituperata Prima Repubblica. Ora viviamo dell’Europa Unita. E rischiamo di mangiare la polvere di Sarkozy, non proprio un gigante. Ma loro possono coltivare la memoria, a quanto pare. E noi? Forse anche la memoria è un Aiuto di Stato. Sicchè, in nome della nuova patria comune, dobbiamo seppellirla.
Libertè, Egalitè, Fraternitè. Et voilà.