A guardare le nude cifre, le dimensioni del disastro sono subito evidenti. Per il solo 2020, sono stimate perdite pari a 120 miliardi di euro, tra aprile e maggio è stato conteggiato un calo di presenze straniere pari al 97,8 per cento, e al 94,8 per quanto riguarda quelle italiane. Ormai è chiaro che il Covid-19 si è abbattuto sul turismo italiano con effetti ancora più devastanti rispetto a quelli prodotti su altri settori dell’economia. E non poteva essere diversamente, perché la pandemia ha minato il cardine: la mobilità delle persone, la circolazione delle genti da un continente all’altro, il viaggiare per piacere alla scoperta del mondo. La paura del contagio, il lockdown, la spaurita ripresa, i timori della seconda ondata dell’epidemia hanno devastato contemporaneamente un modus vivendi e un settore che genera il 13 per cento del Prodotto interno lordo italiano e il 15 per cento dell’occupazione.
Basterebbe questo per giustificare le preoccupazioni e le lamentazioni che percorrono in queste settimane il settore alberghiero come quello enogastronomico, il settore culturale come quello dei trasporti. La ‘movimentazione’ estiva nei luoghi di villeggiatura ha tutto il sapore di un sussulto spasmodico del gigante finito k.o.
Eppure… Sì, eppure c’è qualcosa che stona in questo ‘pianto greco’ (pardon, italico) che echeggia dalle Alpi alla Sicilia, dal Tirreno all’Adriatico. Ed è la mancanza di riflessioni sul modello turismo, così come lo abbiamo conosciuto finora, così come lo abbiamo plasmato a partire dalla seconda metà del secolo corso, sacrificando al Dio Denaro tutto ciò che gli si poneva di fronte: ambiente, organizzazione sociale, salute, garanzie occupazionali. Si può applicare per l’Italia turistica (ma non solo) ciò che Giorgio Bocca scriveva nella sua famosa inchiesta su Vigevano (anno domini 1962): ‘’Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste’’.

Il Covid-19 poteva (potrebbe) essere l’occasione per tentare di pensare, preparare sulle macerie del turismo un nuovo modo di viaggiare, vedere, ammirare, scoprire, spendere, incontrarsi. Il che significa innanzitutto scardinare il rapporto tra turismo di massa e città d’arte. Il primo è un acido che, complice la globalizzazione, ha corroso irreparabilmente città come Venezia, Firenze, Roma, Napoli, ne ha mangiato l’anima, le ha ridotte a simulacri di bellezza. Ridotte a città scenario, dove il protagonista diventa la massa di turisti che con il suo perpetuo fluttuare tutto sommerge e disgrega. E come l’acido sparso si espande, così il ‘turismo a ogni costo’ in questi ultimi anni è scivolato nelle vene di altre città, più piccole, ‘diversamente belle’, meno famose ma non meno d’arte, da Bologna a Siena, da Verona a Palermo.
La dittatura dei tour operator abbinata alla famelicità dell’economia di rapina ha prodotto lo snaturamento della Grande Bellezza. Chi – provenendo dall’America e dalla Russia, dalla Cina e dall’Europa – si accalca per le calli di Venezia o per le viuzze di Firenze, nelle piazze di Roma come in quelle di Napoli è vittima in realtà della Grande Illusione, non vede ma intravvede, non gode ma annusa. Il suo habitat italiano è in realtà la massa cosmopolita che lo avvolge come un bozzolo per tutta la durata del viaggio e gli impedisce di entrare in contatto con la realtà del luogo. Ammesso che questa esista ancora, e non sia stata invece scarnificata proprio da quel turismo mordi-e-fuggi. E non c’è sindaco di una grande città d’arte che abbia il coraggio di opporsi, se non con qualche retorico proclama, a questa devastazione pagata a caro prezzo, ma per motivi diversi, da chi la organizza e da chi la subisce. L’obolo al Dio Denaro non si discute.

(Wikimedia/Trolvag)
Cosa succederebbe se ai tour operator, ai poteri che stanno dietro sigle famose in tutto il mondo, venisse imposto un limite nell’assalto quotidiano alle città d’arte? Cosa succederebbe se venissero costretti a mostrare – con tutte le tutele del caso – le piccole città, i borghi, i panorami, i piccoli musei, le chiese sconosciute che fanno di questo Paese un unicum? Cosa succederebbe se il turismo di massa cedesse il passo a quello ‘intimo’, fatto di scoperte e di rispetto? Perché essere costretti a lunghe file per vedere gli Uffizi o i Musei Vaticani quando possono entrare a casa tua attraverso tv, telefonini, iPad, e non visitare invece il piccolo museo marchigiano o lombardo, dove magari sono nascosti altri capolavori dell’arte italiana? Cosa succederebbe se il richiamo dell’Italia minore al turista comportasse anche una diversa mappatura e riorganizzazione della ricettività alberghiera, della offerta culturale?

Ecco perché, di fronte ai tanti lamenti di questi mesi, vien a volte da pensare che ciò che conta per le prefiche di turno è la conservazione dello status quo ante Covid-19. E vien da pensare che non ci resta, di fronte all’ignavia di tanti amministratori e politici, che sperare nella ribellione del turista massificato, il quale può sciogliere i nodi che lo intrappolano e andare alla scoperta della vera Italia, a Nord come a Sud. Un po’ come ha fatto Oliver Stone nelle scorse settimane. ‘Costretto’ a passare per Venezia in occasione della Biennale Cinema, si è poi incamminato per le strade delle Marche e del Veneto, ammirato il teatro di Fermo e la casa di Leopardi a Recanati, il Ponte di Bassano del Grappa e la Rocca di Asolo. “Viaggiare – ha detto il regista americano, pensando anche ai luoghi più imprevedibili visti in quei giorni – è guardare, respirare la vita in tutte le sue forme. E’ meraviglioso”. Sì, è il contrario del turista-impacchettato mandato all’assalto delle città simbolo.
A fine Covid, risorgerà anche il turismo. Speriamo non più uguale.