Era notte, quando li fucilarono. Erano sette. Due partigiani e cinque antifascisti. Tra il 31 agosto e il 1° settembre 1944. Li portarono a morire nel cuore della città, in piazza Garibaldi. Fu uno degli attacchi più feroci. I loro sette corpi vennero lasciati lì, fino al mattino, affinché tutti li vedessero.
I fascisti avevano emesso un’ordinanza che vietava a qualunque cittadino di avvicinarsi a quei cadaveri. Verso mezzogiorno venne mandata una vettura, con il compito di trasferire le salme al cimitero cittadino della Villetta, a una manciata di minuti da quel luogo. Li lasciarono fuori dal cancello. Un ulteriore gesto di disprezzo. Soltanto la madre di uno di quei giovani volle recuperare il corpo del figlio. Piena di dolore e di rabbia, lo riportò a casa sua, in Oltretorrente, rischiando anche la propria vita.
Qualche mese prima, il 4 marzo 1944, una spia segnalò alla Questura fascista che Eugenio Copelli si trovava in un’osteria del suo quartiere. Venne prelevato per essere interrogato. Antifascista e partigiano, si diceva fosse a conoscenza di molte informazioni e, forse, anche in possesso di alcuni biglietti contenenti messaggi antifascisti. Attraversato il Ponte di Mezzo, all’altezza di Piazza Ghiaia, tentò la fuga. Lo ammazzò una raffica di proiettili, scaricati dai mitra di alcuni militi fascisti della città.

Tra i borghi, sotto i suoi portici e nelle vie, in cui quasi tutti si riconoscono, Parma porta ancora i segni della lotta di Liberazione dall’occupazione nazifascista. Non sono cicatrici, ma incarnazione viva di ciò che è stata la Resistenza partigiana nella città emiliana. Tante le strade che portano i nomi di quei giovani, che scelsero di non accettare e di non aderire al regime di Mussolini. Tanti i monumenti e le targhe in marmo che li ricordano. Ancora riconoscibili, agli occhi dei suoi cittadini, i palazzi dove fascisti e tedeschi torturavano sospetti o partigiani, per farli parlare. Con ogni tipo di mezzo e ogni tipo di sevizia.
Parma è accogliente. Piena di luce. Per le strade del centro, camminano diverse persone. È una città plurale. E benestante. Nei pomeriggi invernali, le vie del centro storico sono piene. Di fronte al Comune, allestiscono il palco per il concerto gratuito di Capodanno. Ospite gradito è Fedez, rapper italiano trentenne molto più che popolare in Italia. Alcuni tecnici provano le luci e le uscite di sicurezza. Sono previste migliaia di persone, anche se la piazza può contenerne meno di 2000. Gruppi di adolescenti percorrono decine di volte lo stesso itinerario. Vanno e vengono. Di tanto in tanto, si incrociano gruppi diversi e si fermano.
Il giro in centro per le vacanze, o il sabato pomeriggio durante l’anno, è una specie di tradizione tra i ragazzi. Un rito, che passa da una generazione all’altra. Via Cavour è il luogo più frequentato. Ogni angolo ha una sua identità.
Parma non è enorme. Eppure è una città universitaria, dove tanti fuori sede hanno scelto di rimanere dopo gli studi. È piccola e vivibile, dicono. Il centro lo si può percorrere tutto a piedi e in poche ore. È separata dal torrente Parma, che in dialetto tutti chiamano “la Perma”, al femminile. Con un po’ di sentimentalismo.
Il quartiere che sta al di là dei ponti si chiama Oltretorrente. Ci sono alcune facoltà universitarie e il Parco Ducale che, dopo la Restaurazione, fu della duchessa Maria Luigia, moglie di Napoleone.

L’Oltretorrente è stato il luogo delle barricate contro il regime fascista, nel 1922, di Guido Picelli, dei partigiani e della resistenza. Da qualche anno, ospita numerose etnie. Molte famiglie, arrivate dall’estero, si sono trasferite lì e hanno avviato attività commerciali. Ristoranti, alimentari, negozi di gioielli e abbigliamento. Ma la notte del 24 novembre 2017, alcuni ragazzi hanno seguito e aggredito il dipendente ivoriano di un piccolo ristorante che cucina kebab, in fondo a via D’Azeglio. L’hanno chiamato “negro di merda”. Poi, con un forte pugno nello stomaco hanno colpito anche Sahid, il gestore del locale di origini maghrebine che a Parma conoscono tutti.
Degli aggressori, ancora, non si sa molto. Erano in nove e, probabilmente, a volto coperto. Tutti italiani. Qualcosa che assomiglia molto a una spedizione punitiva. “So che cos’è successo anche se non so, di preciso, che cosa possa aver fatto questo ragazzo aggredito. Diciamo che se è successo, un motivo c’è. Non credo sia stato un caso, perché nessuno va a picchiare qualcuno così. Non è stata una cosa giusta e bisogna capire chi è stato e prendere dei provvedimenti. Però, sicuramente, ci sarà stata una motivazione”. A parlare è un ragazzo alto, di 17 anni. Si ferma a rispondere alle domande insieme a un gruppo di amici. Tutti molto educati. È nato e cresciuto a Parma, dove frequenta la quarta superiore in un noto istituto tecnico. Fa parte, da pochi mesi, del blocco studentesco di Casa Pound. Alla domanda se è fascista, prima di rispondere, in un primo momento sorride, quasi imbarazzato. “Io sono appena entrato, ma credo nelle loro idee di estrema destra che però non sono fasciste. Cioè, sono la parte buona del fascismo, la parte bella”, spiega mentre fuma una sigaretta nella stessa piazza Garibaldi dove, 73 anni fa, sette ragazzi della sua età persero la vita fucilati perché contrari al regime di Mussolini. “Ovviamente, noi, critichiamo alcune cose che sono avvenute nel Ventennio, però prendiamo le parti migliori: difendere gli italiani a tutti i costi prima degli immigrati che vengono qua, pensando e volendo avere dei diritti che nemmeno noi abbiamo”, continua lui.
Quando gli vengono chiesti dettagli storici sugli anni del fascismo non ne sbaglia uno. È consapevole e convinto. A scuola, però, studia informatica e alla domanda su chi fosse Mussolini risponde: “Direi una persona che ha fatto del bene, che credeva molto fortemente nelle sue idee, molte giuste, e che difendeva il proprio Paese a tutti i costi. Per certe cose lo critico, ma per questa sua idea di portare in alto l’Italia, lo ammiro”. Lo stima anche un altro amico, lì con lui. Che di Mussolini sa tutto.

I suoi genitori sanno che fa parte di Casa Pound. Alle riunioni, d’inverno, lo accompagnano loro, perché in motorino fa troppo freddo, spiega. La madre pensa che sia un gruppo “un po’ estremista”, racconta lui, sorridendo. E aggiunge: “Credo però che, in questo periodo, data la troppa immigrazione che c’è e con tutti i problemi che ci sono sia necessario. Se tornasse Mussolini adesso? Mi sentirei tranquillo, molto più tranquillo di così”. Con il suo gruppo di amici parla anche delle elezioni imminenti, a marzo. Lui sarà ancora minorenne e non potrò votare. Soltanto uno di loro lo farà. Ha scelto di dare il proprio voto a Matteo Salvini, della Lega. “Parma è ancora una città molto ‘rossa’ (di sinistra, ndr)” spiega M., con un certo disappunto. “Più che un dittatore, io considero Mussolini un idealista, che ha cercato di portare le proprie idee, di cui molte giuste e molte altre sbagliate. Io non sono di Casa Pound. Ma sono di destra, abbastanza”. Indossa gli occhiali e ha un tono pacato. Per anni ha fatto il volontario nelle mense dei poveri e quando parla di stranieri li divide in categorie diverse. Fa una sorta di lista. I buoni e i cattivi. Come fanno molti ragazzi della sua età e che, sempre più spesso, sembrano sedotti dalle idee dell’ultra-destra: “Ci sono delle distinzioni da fare, comunque. Ci sono immigrati e immigrati. Ci sono persone nate qui e altre nate all’estero che però si comportano bene. Poi ce ne sono tanti che vengono e che pretendono cose che, noi italiani, per esempio, non possiamo nemmeno permetterci. Io questi li rimanderei indietro. Tu vieni ospite in un Paese che, in molti casi, ti salva dalla guerra, dalla povertà e magari anche dalla morte. Quindi tu devi dire soltanto grazie”.
Sono molto convinti di ciò che esprimono a parole. All’intervista dedicano diversi minuti del loro tempo. E non fa differenza il fatto che siano nati e cresciuti con una seconda generazione di stranieri ormai italiani. A scuola, ogni tanto, affrontano l’argomento e i compagni che vengono dall’estero o si isolano, uscendo dalla classe, o cercano di scherzarci per tentare di essere accettati da tutti. E loro lo sanno. Probabilmente, difenderebbero un amico con un cognome arabofono. Perché amico loro, appunto. Non perché sia giusto farlo.

Mussolini, per diversi adolescenti, non è più un tabù. Condividono, pubblicamente, sui social immagini del Ventennio e frasi appartenenti al repertorio fascista. Conoscono a memoria le parole di “Faccetta nera” e quando non li vede nessuno ascoltano vecchi discorsi del regime. Collezionano e cercano cimeli. Sognano di visitare il mausoleo di Predappio. Può capitare che facciano anche il saluto romano davanti allo specchio. Si fomentano. Allo stadio, per esempio. La maggioranza di loro condanna ancora i gesti di violenza gratuita. Ma forse per scherzo o per ironia, parole violente si fanno sempre più spazio tra i discorsi ordinari. A scuola, per esempio, davanti ai distributori di acqua e merendine.
Per Marco Minardi, direttore dell’Istituto Storico della Resistenza di Parma, da anni impegnato nella diffusione della storia partigiana nelle scuole della città e non solo, la causa di questo “sdoganamento” del fascismo potrebbe essere la perdita, di fatto, delle tante voci che la dittatura la subirono veramente: “Purtroppo, siamo entrati in una stagione dove non ci sono più testimoni e testimonianze. Questo costringe tutti noi a farci carico dei valori che, in realtà, delegavamo ad altri, a chi c’era e a chi aveva vissuto quel periodo storico. Ora bisogna consultare i documenti, riflettere ed è complesso. È un impegno maggiore. La politica dello sterminio degli ebrei e degli antifascisti è il male, nessuno può negarlo. Però non basta più. C’è anche una parte emotiva del racconto, che ci aiuta poi a riflettere. Se noi potessimo incontrare, tutti i giorni, chi ci racconta che cos’è stata la dittatura nazista e fascista potremmo misurarci in modo diverso con il sapere. La mancanza dei testimoni e la distanza di quegli eventi complica, di molto, la capacità di formarsi un’opinione complessa”.
Il direttore dell’Istituto storico, che da anni avvicina le scuole allo studio della Resistenza a Parma, ritiene anche che molti giovanissimi, sedotti dall’ideologia fascista, proiettino nel presente elementi del passato, che però non sono mai stati davvero come li immaginano loro. Una certa idea di ordine, di “pulizia”, di controllo. “Esiste un problema di valori: in molti si rivolgono a Casa Pound perché non considerano un valore importantissimo la libertà, l’uguaglianza, la necessità di identificare nel prossimo una persona come loro, la libertà di pensiero, qualunque esso sia. Il fascismo nega tutto questo”, continua Minardi.
Che aggiunge: “L’Italia, per 20 anni, è stata fascista: il Re lo era, il Paese nelle sue strutture lo era e quando la dittatura è finita, soltanto una minoranza di italiani è riuscita a uscirne. E quella minoranza ha avuto l’occasione e se l’è presa: ha fatto una Costituzione democratica e antifascista. Quella vena ha funzionato ma poi si è esaurita. Per tanti anni, la nostra città aveva avuto un consigliere comunale che aveva combattuto nella Repubblica Sociale Italiana. E i partiti di destra, anche di formazione democratica, hanno sempre strizzato l’occhio a quella parte, anziché prenderne le distanze. Questo fatto porta con sé delle conseguenze”.
E intanto, i tre giovani incontrati in Piazza Garibaldi, nel luogo dove il 24 aprile 1945 finì l’oppressione fascista a Parma, sognano Casa Pound. In Parlamento.