Il gigante restituito alla vita resuscita in un baleno il flusso degli universi distinti e paralleli che da oltre 150 anni si fronteggiano lungo il canale fra il Mediterraneo e il Mar Rosso. Mentre le arche di Noè della globalizzazione fendono le acque per alimentare l’orgia del consumismo nell’intero pianeta, sulle rive resiste nelle sue radici un mondo arcaico regolato sulle leggi di natura e sui ritmi delle stagioni. Un movimento perenne al cospetto della pietrificazione degli spiriti. Container carichi di meraviglie merceologiche scivolano verso Oriente o Occidente nella fatalistica indifferenza di chi abita le terre circostanti ed è troppo preso dalla fatica di procurarsi il pane per concedersi il lusso di sgranare gli occhi. Ai contadini che popolano quelle lande limacciose, atavicamente costretti in baracche prive perfino della luce elettrica e dell’acqua corrente, interessa più la raccolta delle canne che assicura un minimo dei sussistenza degli ultimi modelli di smartphone rinchiusi negli scrigni dei container destinati ai paesi dei balocchi.
Suez è una confluenza di miraggi che si specchiano e si respingono, tale è la dismisura dei mondi che rappresentano. L’Ever Given scampata all’infarto ridà serenità all’Egitto e alla grammatica dei traffici mondiali (passano annualmente per i 193 chilometri del canale il 30 per cento delle spedizioni di merci e il 12 per cento degli spostamenti dei portacontainer). Resta il monito che basta una tempesta di sabbia o una sbadataggine umana per inceppare un meccanismo di alta precisione e mandare in tilt il tapis roulant della globalizzazione. Quasi che la natura, supremo regolatore della sponda in ombra, per una sorta di nemesi abbia voluto prendersi una rivincita sui luccicchii dell’alta tecnologia che va per mari.

Nei taccuini della memoria Suez è legato a un fine settimana afoso in cui, libero da impegni professionali, venni calamitato dalle suggestioni del canale per sfuggire al caos e all’asfissia del Cairo. Avevo già sperimentato i saliscendi di Panama, il fratello minore (solo centenario) costruito dagli Stati Uniti, con il suo sistema di chiuse che domano i dislivelli. Ma più che la curiosità per i prodigi dell’ingegneria mi spingeva la febbre di esplorare la dimensione del mito, l’aura storica di un’arteria che era stata già concepita dal faraone Necao II sei secoli prima della nascita di Cristo. E nello sbalzo dei millenni, che spinsero alla ribalta Dario I di Persia e perfino Cleopatra (dopo la battaglia di Azio fece insabbiare i resti della sua flotta nel tentativo di metterla al riparo nel Mar Rosso), si arriva ai progetti abortiti di Napoleone Bonaparte e alla scommessa vincente di Napoleone III che affidò la realizzazione dell’opera al diplomatico francese Ferdinand de Lesseps su progetto dell’ingegnere trentino Luigi Negrelli. Inaugurato nel 1869 il canale fu strozzato nel ’56 dal blocco di Gran Bretagna, Francia e Israele dopo la nazionalizzazione imposta dal presidente egiziano Nasser (una crisi internazionale ad alta tensione sbloccata dagli Stati Uniti) e nel ’67 dalla guerra dei sei giorni (in cui l’aviazione israeliana sfigurò l’antica fisionomia di Suez).

L’arrivo a Suez, circa 120 chilometri e un’ora e mezzo di auto dal Cairo, introduce in microcosmi distaccati. Il centro della città, ricostruita dal ’75 con la ripresa della navigazione, si è sviluppato secondo i canoni di un’edilizia frettolosa e anonima sprigionando l’ingarbugliata effervescenza che in forme più abnormi strangola il Cairo. E’ una carica di vivacità che riflette il dinamismo esasperato del porto slanciato verso il Mar Rosso. Le barriere di accesso limitano l’orizzonte, relegano all’intuizione il compito di respirare gli aliti dell’Oceano Indiano, immaginare i brividi dell’impatto con la pirateria nelle rotte alternative verso il capo di Buona Speranza, percepire i richiami di un Oriente infinito. L’impennata demografica (oltre 400 mila abitanti) dilata tutt’intorno sacche di miseria e disagio sociale. La periferia si espande su terreni sabbiosi, nel susseguirsi di insediamenti polverosi e sgangherati, scorci nordafricani di inesauribile spleen.
Lungo i tratturi che verso Nord si snodano in mezzo ai canneti si fende il mondo contadino dove non attecchisce la modernità. L’attraversamento di un Medio Evo volutamente quasi immobile, pervaso da una strenua difesa delle tradizioni secolari. Dove conta solo la forza dei sentimenti elementari e dei precetti musulmani. E dove, per innata prudenza verso i dispotismi, è assente la politica. Ieri Mubarak, oggi al Sisi. Nulla cambia: assente la libertà, incombente la povertà.
Si torna nella contemporaneità a Ismailia, davanti ai Laghi Amari che allargando notevolmente i corridoi del canale configurano il pit stop della navigazione. Ismailia, nata durante la costruzione dell’arteria (vi fissò la sua dimora de Lesseps), non è una meta internazionalmente rinomata. E’ un buon rifugio per la piccola a media borghesia del Cairo. Un’oasi un po’ sonnolenta che scioglie le nevrosi con la dolcezza delle dimore coloniali e i distensivi corsi d’acqua dolce.

All’estremo Nord, affaccio sul Mediterraneo, Porto Said. Uno degli scali marittimi più importanti del mondo. Intorno al polmone che regola i movimenti in ingresso o uscita di circa 80 navi al giorno (l’Egitto riscuote quotidianamente dai pedaggi 12 milioni di euro) si stende la trama urbanistica di stile coloniale. Con l’intreccio di magioni ottocentesche, terrazze diffuse, spazi verdi e specchi lacustri. Città indaffarata ma con una vena di edonismo mediterraneo che stempera nei languori le cupe atmosfere imposte dalla morsa della dittatura militare.
Porto Said ha un aspetto solare. Nel gioco delle comparazioni, anche per l’occhio onnipresente del regime, non ha nulla delle torsioni di violenza che abbrutiscono Colon, il terminale atlantico del canale di Panama. Ostaggio delle bande criminali che nei tempi più bui scoraggiavano i crocieristi caraibici dallo scendere dalle navi. Al punto che il Comune elargiva dei voucher ai visitatori più avventurosi per incentivare il commercio. E lungo le strade capitava di imbattersi nel più sbalorditivo cartello registrato nei miei vagabondaggi professionali: “Non sparate sul turista, potrebbe non tornare”.