
Cosa chiedere ad Artemide? Sono qui sola, nel silenzio di Termessos, di fronte alla bianca porta del suo tempio, miracolosamente intatta tra cumuli di grigie rovine. E più non so cosa chiedere. Ogni preghiera sembra inutile davanti alla distruzione della casa della dea. Ma la sua porta si apre come una cornice appesa al cielo e dà la speranza che Lei sia ancora.
Il primo a violarne il tempio è stato Bellerofonte. L’eroe greco aveva sconfitto la Chimera ma a Iobate, re di Licia, non bastava, perché sapeva bene che non era sufficiente fare a pezzi quel mostruoso simbolo dell’eterno ritorno per dissolvere il potere femminile. Comandò a Bellerofonte di annientare le Amazzoni rifugiatesi presso i Solimi, loro alleati. Essi abitavano su una vetta impervia della Pisidia che chiamavano con il nome del loro dio: Solymos. Ma ciò non bastò a proteggerli da una minaccia che giunse dal cielo nascosta da un fumo di nubi. Un diluvio di massi si abbatté su quei combattenti bellicosi senza che riuscissero a vedere da dove provenisse. Pensando fosse opera di un dio più potente del loro, si arresero. E quando Bellerofonte atterrò in groppa a Pegaso, il suo cavallo alato, ne ebbero la certezza. Eppure l’eroe fu conquistato dalla fierezza di quelle donne in armi e lasciò che i loro discendenti mantenessero la successione matrilineare. Fece erigere accanto al tempio di Artemide quello di Zeus Solimius. E fondò così la città di Termessos che cinse di doppie mura.
Mille e cinquecento anni dopo, la città apparve subito inespugnabile ad Alessandro Magno, così arroccata e circondata dalle vette del Tauro. Fu l’unico luogo che il divino Alessandro non riuscì a conquistare. Più tardi i Romani preferirono stringere con la città un’alleanza, riconoscendo la sua indipendenza, piuttosto che tentare di espugnarla. Ma alle soglie della nuova era Termessos fu rasa al suolo da un terremoto e mai più abitata.
Dopo quattro anni sono tornata ad Antalya, città di un milione di abitanti adagiata sulla costa mediterranea della Turchia, perché si trova in una zona dove il mito è entrato nella storia della nostra civiltà occidentale. Probabilmente fondata da fuggiaschi troiani, dopo l’incendio di Troia, faceva parte della Panfilia, la terra di tutte le stirpi, che confinava a ovest con la Licia e a nord con la Pisidia. Tutti mi sconsigliavano di partire per la Turchia, per giunta da sola. E davvero i turisti italiani e tedeschi non ci mettono più piede. Eppure è molto più pericoloso trovarsi nella stazione di Milano dopo le otto di sera che all’una di mattina all’aeroporto di Antalya. Non ci sono rifugiati extracomunitari né accattoni e del personale addetto alla sicurezza sia maschile che femminile controlla tutta l’ampia area antistante; quindi sono andata tranquillamente a ritirare la mia auto presa a noleggio. Quando mi metto in testa una cosa, non penso mai ai rischi che possa comportare e guardo verso il mio orizzonte con fiducia.
La mattina seguente per andare a Termessos ho chiesto indicazioni ad un tassista e pure lui mi ha sconsigliata di recarmi da sola in un posto pressoché deserto: dovevo percorrere per 30 km la superstrada verso nord e poi imboccare a sinistra una strada, sdrucciolevole per la pioggia e piena di tornanti, che saliva a strapiombo per mille metri. Mentre uscivo da Antalya non sapevo ancora se l’avrei ascoltato dirigendomi piuttosto a Side, sulla costa. Quando ho visto le indicazioni per Termessos, è stato più forte di me e le ho seguite.
Salivo guidando tra boschi di pini, circondati da pietrose vette coniche. Arrivata all’ampio spiazzo all’ingresso del sito archeologico, peraltro mai scavato, ho posteggiato e proseguito a piedi inerpicandomi per un paio d’ore tra alberi di querce e boscaglia in quella che una volta si chiamava “la strada dei re”.

Ogni tanto incontravo resti di mura fatti con parallelepipedi ben squadrati, ma non c’era anima viva. Eppure non avevo paura. Ho notato due cerchi sulla cinta delle mura con una freccia stilizzata a triangolo rivolto verso il basso, quasi un simbolo cosmico e, mentre li fotografavo, ho sentito un fruscio. Mi sono girata e ho visto una bellissima donna dai capelli d’oro scuro raccolti sulla nuca, che evidenziavano gli alti zigomi, scendere quasi correndo per la via. Portava degli shorts che lasciavano scoperte le gambe abbronzate e spessi stivali di cuoio affibbiati. Ho fatto un rumore per farmi notare, ha sussultato, poi mi ha sorriso e ho potuto chiederle: “Sei tedesca o turca?” “Turca” mi ha risposto con un sorriso e mandato un bacio.
Una è sopravvissuta alla strage di Bellerofonte, ho pensato appagata dalla risposta. Un’Amazzone, intendo. Il coraggio femminile c’è ancora. Era quello che inconsciamente volevo sapere.
Quando sono arrivata alla cima del monte Solymos, le nuvole velavano basse l’anfiteatro greco sospeso tra le vette del Tauro. Ritornata a valle, tra le rovine ho scorto il bassorilievo di una donna priva di testa che aveva ai suoi piedi una maschera. Quell’attrice era sempre stata senza volto? E perdendo la maschera lo svelava? Mica tutte sono Amazzoni. Ma ecco la pantera che incrocia le zampe con quelle del leone: i simboli femminile e maschile di forza divina, riconoscono la parità nell’unione. Era quello che volevo vedere, anche se non lo sapevo.
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