To the Lighthouse, di Virginia Woolf, pubblicato nel 1927, è uno dei romanzi più famosi del modernismo letterario. E per conto mio anche uno dei romanzi più belli del 900 tout court. Il romanzo è ambientato nell’isola scozzese di Skye, anche se i biografi sanno che in realtà l’ispirazione è data da una località della Cornovaglia, St. Ives, dove la famiglia d’origine della scrittrice trascorreva la villeggiatura estiva. Intatti, nel romanzo, il faro che la famiglia Ramsay non riesce a raggiungere nella prima parte, e a cui alla fine approderanno, molti anni dopo, solo alcuni dei protagonisti, sorge su una piccola isola nella baia, come quello di Godrevy Island, di fronte alla costa della Cornovaglia.

Il faro di Skye, invece, presidia il promontorio di Nest Point, in uno dei punti più remoti e suggestivi dell’isola delle Ebridi. Skye è l’isola più grande fra le tante che si affacciano sulla costa occidentale della Scozia. Isola di un’isola, ha il fascino selvaggio delle Highlands, le terre alte scozzesi, unito a quello di un luogo interamente circondato dall’acqua. Ci si arriva con una giornata o poco meno di viaggio da Edinburgo, attraversando scenari montani spettacolari, e poi imbarcandosi a Mallaig, oppure attraversando lo Skye bridge, il ponte che collega l’isola alla terra ferma all’ altezza del piccolo porto di Kyle of Lochalsh. Il principale centro abitato è Portee, un villaggio con una piazza, alcuni hotel e B&B, un fronte-mare impreziosito da una fila di case dalle facciate colorate, e persino un fornito supermercato. Man mano che ci si spinge verso nord le abitazioni diminuiscono. Il porto di Uig, da cui ci si imbarca per le Ebridi esterne, le isole di Lewis e Harris, è poco più di un lungo molo spazzato dal vento, una stazione di servizio e un locale dove ripararsi per giocare a biliardo, bere una birra o un whisky, guardare la vita scorrere, anche in lande così “lontane” (da dove? Ed esistono posti lontani nell’era del web?).
In effetti in luoghi così, dove il clima è mutevole, spesso inclemente, la presenza di un posto asciutto e caldo in cui rifugiarsi – un pub, una casa con un caminetto – è fondamentale. Se Skye è un paradiso – lo è – non è un paradiso tropicale, dove oziare su una spiaggia aspettando che un ananas cada ai nostri piedi.

L’isola è stata per anni teatro degli scontri fra i clan rivali dei MacLeod – il cui castello, Dunvegan, è senza dubbio l’edificio storico più importante presente sull’isola – e dei MacDonalds. Nella penisola di Waternish – dove sorge il pub più antico di Skye, lo Steinn In – i resti della chiesa di Trumpan ricordano uno degli episodi più sanguinosi di quella epopea. Una domenica di maggio del 1578 i MacDonalds sbarcarono qui vicino. La popolazione si rifugiò nell’edificio (secondo un’altra versione invece in quel momento era un corso un raduno del clan).
Gli invasori gli diedero fuoco, vendicando così una strage analoga compiuta poco tempo prima dai McLeod nell’isola di Uigg. Solo una giovane riuscì a fuggire, attraverso una piccola finestra, mutilandosi il seno per passarci attraverso (il tema mutilazioni è spesso presente in queste saghe). Diede l’allarme e ovviamente la vendetta dei MacLeod fu proporzionata.
Oggi in queste brughiere trapunte di erica regna la pace, d’estate appena turbata dall’ arrivo dei turisti, attratti dalle spettacolari scogliere, dai rilievi montuosi, dalla distilleria del Tallisker, uno dei grandi whisky scozzesi. Dalla Kilt Rock una cascata precipita lungo la parete di basalto (le cui pieghe ricordano appunto quelle di un kilt, il tradizionale gonnellino scozzese) fino al mare. Poco più in là, veglia

il pinnacolo di roccia dell’ Old man of Storr, circondato dalle nubi. Il cielo è una perenne celebrazione dello Sturm und Drang: ma quando le nubi si aprono e scocca un raggio di sole, il verde dei pascoli e il bianco accecante delle coral beaches, le spiagge coralline, lascia senza fiato.
Facile capire perché i tanti che emigrarono nel corso dell’800, dopo la fine dell’epopea dei clan ( in seguito al fallimento della rivolta Giacobita capitanata da Bonnie Prince Charlie, l’erede al trono della casata Stuart, stroncata dalla corona inglese, cioè dagli Hannover), sentissero sempre il morso della nostalgia. In seguito alla rivoluzione industriale, del resto, tutte le Highlands furono vittima delle clearances, le campagne di emigrazione forzata poste in essere dai landlord, i grandi proprietari terrieri, per sgomberare i terreni dalle fattorie dei mezzadri e convertirli in pascoli per il più redditizio allevamento delle pecore. Tra il 1840 e il 1880 furono sfrattate da Skye circa trentamila persone, molte delle quali furono costrette ad emigrare nel Nuovo Mondo. Solo negli ultimi anni la popolazione ha ripreso a crescere, e oggi, ci dice la proprietaria di un bed & breakfast, sull’ isola ci sono persino piccole colonie di stranieri, attirati quassù dalla vertigine dei grandi spazi poco popolati, dalla musica mutevole del vento e dalle sciabolate di colore degli arcobaleni dopo le piogge.

Andiamo al faro, passando il piccolo centro abitato di Glendale, guidando lungo una strada tortuosa, ad una corsia. Qui, nell’emporio vicino all’ufficio postale, si può comprare qualcosa da mangiare per la sera, perché l’unica cafetteria chiude alle 16 (in alta stagione invece avrete la sorpresa di trovare, mimetizzato fra queste fattorie, un ristorante stellato). L’ultima farm prima del parcheggio ospita una settantina di pecore. Ci fermiamo proprio mentre la proprietaria ne sta aiutando una a partorire. “It’s a boy!”, esclama, mentre tira fuori – letteralmente – l’agnellino dal grembo della madre, gli caccia una mano in bocca per liberarla dalla placenta, lo scuote per farlo respirare. Meno di un miglio più avanti dobbiamo lasciare la macchina. Scendiamo in un ampio avvallamento, poi giriamo dietro ad un promontorio roccioso. Il faro è lì.
Oggi semi abbandonato, anche se funzionante e in buone condizioni di conservazione. Le finestre rotte guardano nelle stanze in cui ci sono ancora letti e materassi, suppellettili, lavagne con gli appuntamenti della giornata. Sul retro la vecchia tromba per avvisare le navi della presenza della costa nelle giornate di nebbia si affaccia sull’ oceano color del ferro.
“A volte si vedono passare le balene”, ci dice una persona del posto, venuta qui per pescare.
Di fronte a questo spettacolo, viene naturale pronunciare le parole con cui si chiude il romanzo di Virginia Woolf, quelle che Lily Briscoe, la pittrice, mormora tra sé guardando verso il faro dove il signor Ramsay e due dei suoi figli sono finalmente approdati, con anni di ritardo: “Ho avuto la mia visione”.