Nella campagna senese, a qualche chilometro da Chiusdino, si eleva, imponente e solitaria nel paesaggio, quella che è stata la prima chiesa gotica cistercense toscana, l’abbazia di San Galgano. Salendo sul poggio attiguo – una camminata di una decina di minuti che apre lo sguardo sui versanti pettinati a vigneti del circondario – si passa dalla dimensione superba ecclesiale al raccoglimento del minuscolo eremo di Montesiepi, cappella a pianta circolare sorta verso il 1185 sul sito della capanna di Galgano, dissoluto cavaliere convertitosi all’eremitaggio e alla penitenza e qui vissuto in ritiro l’ultimo anno della sua breve vita, conclusasi nel 1181.

L’unica e autentica
Al centro della pavimentazione è conficcata nella roccia una spada del XII secolo, dichiarata autentica da analisi scientifiche guidate negli ultimi anni da Luigi Garlaschelli dell’Università di Pavia; lo studioso, già nel 2001, aveva espresso il desiderio di voler scavare sotto di essa, in cerca del corpo del santo, dopo che rilevamenti non invasivi tramite georadar avevano evidenziato una nicchia dalle misure atte a contenere le spoglie.

Ricerche archivistiche su antiche carte, a cura del chiusdinese Andrea Conti, hanno però indicato la presenza, nello stesso punto, di un’altra sepoltura, già indagata nel 1694 e non riguardante Galgano. La ricerca rimane in sospeso, la curiosità anche, mentre la spada veglia sullo spirito dei luoghi, protetta da una teca trasparente, dopo alcuni atti vandalici perpetrati in passato.
Nel Trecento, al corpo principale dell’eremo fu affiancata una cappellina rettangolare, affrescata dal pittore senese Ambrogio Lorenzetti, noto per l’Allegoria ed effetti del buono e cattivo governo (1338-’39), ciclo che si ammira nel Palazzo Pubblico di Siena e che rappresenta una delle prime espressioni di arte legata alla vita civile.
Da cavaliere a penitente
Ma come si lega la spada al santo? Galgano Guidotti nacque a Chiusdino verso il 1150, da una famiglia della piccola nobiltà locale; è tuttora visibile la casa natale, in via della Cappella: dopo la morte della madre, passò ai monaci cistercensi e da questi fu donata alla Confraternita di San Galgano, che vi allestì due oratori, la Cappella di sotto, nella sala di ingresso del palazzo, e la Cappella di sopra, in una delle sale superiori. In età napoleonica l’edificio fu occupato dalle truppe francesi e adibito a caserma e poi a carcere. Nel 1900 il Comune di Chiusdino restituì alla Confraternita la Cappella di sotto, che fu restaurata nel 1905 in stile neogotico e restituita al culto.

Le notizie sull’infanzia di Galgano sono quasi nulle, ma è certo il suo avvio all’esercizio delle armi, come il lignaggio voleva. Cavaliere pomposo e altero nonostante la retta educazione ricevuta dai pii genitori, si ravvide dopo la morte del padre, avvenuta intorno al 1178: sette giorni dopo il luttuoso fatto, il giovane narrò alla madre Dionisia un sogno, in cui San Michele arcangelo lo chiamava a soldato.
Abbiamo notizie certe dello svolgersi dei fatti grazie alla deposizione di Dionisia, raccolta durante il processo di canonizzazione del figlio, nel 1185: dopo alcuni anni, Galgano ricevette un’altra chiamata dall’arcangelo, che gli indicò anche il sito dove erigere “una casa in onore di Dio, della Beata Maria e dei dodici apostoli”, ove rimanere “per molti anni”. In realtà il penitente morì di stenti dopo un solo anno di ritiro.
Dalla guerra alla croce
Il racconto materno narra anche di un tentativo di dissuasione dalla missione religiosa; Dionisia, infatti, fidanzò Galgano a Polissena dei conti Ardenghi, una fanciulla maremmana, ma proprio recandosi a conoscere la promessa sposa, alla vigilia di Natale del 1180, egli ebbe una nuova esperienza mistica: sul cammino il cavallo improvvisamente cambiò direzione e il cavaliere capì di doverlo assecondare; “lasciò le briglie sciolte sul collo del cavallo e pregò devotamente il Signore perché lo conducesse al luogo in cui avrebbe riposato per sempre”, il colle di Montesiepi. Qui, in segno di rinuncia perpetua alla guerra, conficcò il suo spadone “in terram” (così come scritto nel verbale, dunque non nella roccia): l’arma capovolta, assumeva la forma del crocefisso, una nuova simbologia, opposta al suo precedente utilizzo.
Una comunità ascetica
La conversione di Galgano fece notizia e richiamò presto proseliti; pare che la stessa Polissena fu da lui convinta a prendere il velo e ad ella viene attribuita la fondazione del monastero di San Prospero, alla periferia di Siena (distrutto da un incendio nel 1526 durante la lotta fra senesi e fiorentini).
Nel verbale del processo di canonizzazione si leggono testimonianze di pellegrinaggi a Montesiepi, in cerca di consigli o per unirsi alla preghiera; nacque un piccolo gruppo, organizzato intorno ad una regola orale, ispirata a vari testi monastici e, più genericamente, al vasto movimento spirituale che, dopo il Mille, cominciò a reagire con sdegno e allontanamento alla decadenza morale che stava aggredendo la Chiesa, contaminata dal modello economico dei comuni, dominato dalla brama di affari e guadagno. L’ascetismo come reazione alla mondanità e alla materialità.
Nella primavera del 1181 Galgano si recò da papa Alessandro III per ufficializzare la sua comunità e ottenne sia il consenso, sia il dono delle reliquie dei martiri Fabiano, Sebastiano e Stefano I, da collocare nella chiesa prevista a Montesiepi, una volta ultimata e consacrata.
Invidie e ire divine
Un tale immediato riscontro positivo suscitò inevitabili invidie, alcuni oppositori – forse religiosi locali che temevano “concorrenza” – salirono all’eremo e tentarono di svellere la spada: invano. Scavarono tutto intorno: invano. La spezzarono e, a quel punto, incorsero nell’ira divina: si tramanda che uno cadde in un torrente e annegò, un altro fu colpito da un fulmine, un terzo fu aggredito da un lupo che gli azzannò le braccia, ma sopravvisse, benché mutilato, avendo urlato il suo pentimento.
Rientrato da Roma, si mise in relazione con un vicino monastero dell’ordine guglielmita, presumibilmente quello di San Salvatore di Giugnano, altrimenti detto anche di Guglielmo, ma venne a mancare prematuramente dopo meno di un anno, 30 novembre 1181, e il 3 dicembre fu sepolto accanto alla sua spada.

Viva il santo!
La sua tomba divenne meta di pellegrinaggi con tale affluenza da attirare l’attenzione del vescovo di Volterra, Ugo, il quale condusse un’indagine conoscitiva delle virtù e dei miracoli attribuiti a Galgano (successivi atti della canonizzazione riferiscono, tra i numerosi, di guarigioni e liberazioni di prigionieri e di posseduti dal demonio) e gli esiti positivi portarono all’autorizzazione della costruzione di una cappella a custodia della tomba e della spada.
Il successore di Ugo, Ildebrando Pannocchieschi, avanzò presso papa Lucio III la richiesta di un processo di santificazione, che fu compiuto da tre commissari del pontefice e che è considerato il più antico di cui siano pervenuti gli atti. Galgano venne così iscritto nel Martyrologium Romanum e festeggiato il 3 dicembre. La nuova edizione promulgata da Paolo II nel spostò la data al novembre, ma la parrocchia di San Michele Arcangelo in Chiusdino e la confraternita del santo continuano a celebrare San Galgano il 3 dicembre.
Dalla Toscana al Galles
Galgano come Artù o Artù come Galgano? Certo immediate e affascinanti sono le affinità tra le due figure: entrambi cavalieri che poi scelsero la vita eremitica, entrambi collegati ad una spada, che però Galgano infigge, mentre Artù estrae.

Gli avalli storici sono solidi per Galgano, inconfutabilmente esistito, mentre di Artù è assai nebulosa l’identificazione, da condottiero romano a guerriero britanno, da divinità antropizzata a “mosaico” di varie fisionomie di personaggi ondeggianti – per la loro età remota – tra mito e realtà. La spada Excalibur fa la sua apparizione letteraria come nell’Historia Regum Britanniae di Geoffrey di Monmouth, scritta, tuttavia, circa cinque secoli dopo gli eventi dell’epoca arturiana, a materia già presente nel tessuto tradizionale. Lo storico realizzò la prima grande popolarizzazione della leggenda (ma Artù era stato originariamente citato in un antico poema gallese risalente al 594 circa, Y Gododdin, e in alcuni coevi componimenti del bardo Taliesin) e potrebbe essersi “impadronito” della storia della spada toscana. Parecchie biografie, tra cui la Vita Sancti Galgani de Senis, riferiscono di contatti che il santo avrebbe avuto con il suddetto eremo di San Guglielmo di Malavalle, a Castiglione della Pescaia (Grosseto); Guglielmo, secondo una vulgata della zona, sarebbe stato Guglielmo X d’Aquitania, padre di Eleonora, alla cui corte operò Chrétien de Troyes, l’autore del Roman de Perceval ou le conte du Graal, ove è citato per la prima volta il Santo Graal. Guglielmo morì nel 1137, recandosi in pellegrinaggio a Santiago de Compostela: nessuno mai vide la sua salma, potrebbe essere il santo di Malavalle che compare in Maremma alcuni anni dopo. I risultati di indagini scientifiche eseguite sulle reliquie di San Guglielmo, compresa quella del DNA mitocondriale, rendono assai probabile l’origine nordica del personaggio.
Una chiesa attiva
A magnificare il sito che fece da scenario alle vicende di Galgano fu eretta la maestosa chiesa e annessa abbazia, opere di cui esiste testimonianza di avanzati lavori già nel 1227, grazie al supporto economico del grande patrimonio fondiario che i monaci (cistercensi provenienti da Casamari, presso Frosinone) avevano accumulato grazie a donazioni, lasciti e concessioni ecclesiastiche che permisero loro di entrare in possesso dei beni delle abbazie benedettine dei dintorni. Alla metà del XIII secolo l’abbazia di San Galgano era la più potente fondazione cistercense in Toscana, custodita e beneficiata dagli imperatori Enrico VI, Ottone IV e Federico II, che oltre a confermare i privilegi concessi, ne aggiunsero altri, come il diritto di monetazione, mentre dal papa Innocenzo III arrivò l’esenzione dalla tassa della decima.

Il grandioso edificio fu consacrato nel 1288 e i monaci di San Galgano consolidarono nel tempo rapporti economici e politici con la Repubblica di Siena; ad essi diede, ad esempio, il compito di studiare un acquedotto che dalla valle della Merse portasse acqua a Siena. Frate Melano nel 1266 stipulò il contratto con Nicola Pisano per la realizzazione dello stupendo pulpito della cattedrale e nel territorio circostante i monaci si impegnarono nella bonifica delle paludi circostanti e regimentazione del corso della Merse per sfruttarne l’energia idraulica e far lavorare un mulino, una gualchiera per la lavorazione dei panni e una ferriera.
Una chiesa dimenticata
Il primo colpo alle fortune della chiesa fu assestato dalla carestia del 1328, il secondo dalla peste del 1348, il terzo dai ripetuti saccheggi della compagnie di ventura: alla fine del secolo la comunità si era ridotta a sole otto persone. Nel 1474 i monaci fecero edificare a Siena il palazzo di San Galgano e vi si trasferirono, abbandonando il monastero. Dal 1503 l’abbazia venne affidata ad una serie di abati commendatari, scelta che, per il malgoverno, significò la rovina di tutto il complesso; uno di essi fece rimuovere per poi vendere la copertura in piombo del tetto della chiesa, accelerando il processo di degrado delle strutture.
Una relazione del 1576 segnala la presenza di un solo monaco e il crollo delle volte e delle vetrate; una successiva cronaca del 1662 dichiara che “La chiesa non può essere tenuta in peggior grado di quello che si trova e vi piove da tutte le parti”.
Nel 1781 rovinò quanto rimaneva delle volte e nel 1786, dopo un fulmine, crollò anche il campanile; la trecentesca campana maggiore pochi anni dopo venne fusa e venduta come bronzo. Negli anni seguenti l’abbazia venne convertita in fonderia e nel 1789 la chiesa fu definitivamente sconsacrata e abbandonata. I locali del monastero diventarono sede di una fattoria e vennero parzialmente restaurati nei primi decenni del XIX secolo.
L’interesse per il luogo si risvegliò alla fine dell’Ottocento, accompagnato da una campagna fotografica realizzata dai famosi fratelli Alinari di Firenze, e nel 1924 iniziò un restauro a cura di Gino Chierici, con metodo conservativo (senza ricostruzioni, solo consolidamento dell’esistente) che regala oggi una visita di rara suggestione.
Solemnis ecclesia
Svettante senza tetto, la chiesa acquista una dimensione ancora più mistica, slanciata verso l’infinito azzurro, solenne custode del soprastante piccolo eremo. Il complesso comprende anche un chiostro di cui oggi rimangono poche, eleganti vestigia (completamente distrutto già nel XVIII secolo, durante i restauri degli anni Venti si decise di ricostruirne, con i materiali originari, una piccola parte identificativa, composta da arcate con colonne binate) e gli edifici abbaziali: sacrestia, armarium, sala capitolare con volte a crociera, auditorium e scriptorium.
L’abside è la prima parte visibile da chi arriva dalla via Maremmana: la chiesa, a croce latina, è lunga 69 metri, larga 21, è a 3 navate e 16 campate con pilastri cruciformi, racchiusa tra due contrafforti, e presenta due ordini di aperture con tre monofore ad arco a sesto acuto.
Il transetto è suddiviso in tre navate, quella orientale trasformata in quattro cappelle rettangolari, la maggiore con semplice abside rettangolare. Nella parete di fondo a sinistra vi sono due porte, per l’accesso alla scala a chiocciola che conduceva al sottotetto e al cimitero. A destra invece si trova la porta verso la sagrestia e una apertura in alto, che ospitava una scala in legno tramite cui i monaci potevano arrivare in chiesa dal dormitorio. Il campanile – costruzione inusuale nelle abbazie cistercensi – si trovava in corrispondenza della prima cappella del transetto di destra: crollato nel 1786, ora lo testimoniano solamente una porta e una monofora nella parte sinistra dell’abside. Spettacolare il grande rosone della parete absidale, sovrastato da un oculo più piccolo.

Scenari da cinema
Un tale scenario è stato sfruttato per parecchie riprese cinematografiche: lo si ritrova, ad esempio, in Il riposo del guerriero di Vadim (1962), Paolo Barca, maestro elementare, praticamente nudista di Mogherini (1975), Nostalghia di Tarkovskij (1983), Il paziente inglese di Minghella (1996) e nel video dei Pooh La casa del Sole.
Data la sua posizione piuttosto isolata, il sito, turisticamente, non si satura di folla: è possibile una visita rilassata e rilassante, immersi nella natura, nella storia e nell’arte, ritrovando quella pace interiore che San Galgano elesse a scelta di vita e che per noi rimane solo un ritaglio nell’incalzante quotidiano. Il (modesto, rispetto alla media dei monumenti) ticket d’entrata si acquista nello scriptorium, adibito a biglietteria e punto informativo, nonché espositivo, e comprende anche l’ingresso al museo di Chiusdino.