La costa italiana naturale ha una lunghezza di circa 7.500 chilometri, che diventano 8.300 addizionando anche tratti rettilinei introdotti presso le foci dei fiumi, le strutture portuali (costa fittizia) e i tratti di nuova creazione: secondo dati dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), più del 9% di costa è, infatti, ormai artificiale.
La regione con il maggior sviluppo costiero è la Sardegna, con 1.849 chilometri. E qui il mare è il top in Italia, senza se e senza ma. Un itinerario alternativo alle bollicine di Porto Cervo, per andare ad oziare in spiagge dove si sente parlare sardo e si può toccare con mano la storia delle tradizioni locali, porta alla parte sud-ovest dell’isola, nella regione storica del Sulcis Iglesiente, provincia di Carbonia-Iglesias.
Facendo base a Portoscuso, si va ad esplorare la costa di Nebida a nord (rispetto al paese) e le sette spiagge di Chia a sud, senza dimenticare un entroterra punteggiato da nuraghi, vestigia romane, antiche miniere e siti di archeologia industriale. La costa di Nebida è designata area SIC (Sito di Interesse Comunitario) e comprende la fascia litoranea da Portoscuso a Buggerru, passando per Funtanamare, Nebida e Masua. Spiagge e calette lambite da un mare fantastico sono circondate dai profumi della macchia mediterranea: corbezzolo, lentischio, ginepro e ginestra. Nei secoli passati il territorio era noto per la ricchezza del sottosuolo: carbone, ferro, piombo e zinco ne facevano un'area mineraria di notevole importanza; in seguito alla chiusura degli impianti di estrazione, e quindi l'abbandono del territorio da parte dell'uomo e delle sue attività, la natura è tornata ad essere padrona e oggi buona parte dell'area fa parte del Parco Geominerario Storico ed Ambientale della Sardegna, riconosciuto dall'UNESCO, nel 1997, come primo parco della rete mondiale dei Geoparks.
Le spiagge dei minatori
Il Pan di Zucchero
Cala Domestica, l’uscita della galleria per la caletta
Uscendo da Portoscuso, dopo pochi chilometri si snoda lo spiaggione di Porto Paglia; se cercate di siti più raccolti, potete però proseguire (poco meno di 30 km.) per Masua che fronteggia il faraglione Pan di Zucchero, così detto per la somiglianza con il Pão de Açúcar di Rio de Janeiro; in questa località si trova anche Porto Flavia, un curioso nome, legato alla figlia del progettista, per un porto sospeso, raggiungibile attraverso una galleria di 600 metri scavata nella roccia dai minatori: si sbuca a mezz’altezza su uno strapiombo con vista. Realizzato nel 1924, il complesso sotterraneo si compone di due gallerie sovrapposte e di un nastro trasportatore che riceveva i minerali dai depositi per trasferirli, con un ingegnoso braccio mobile, nella stiva delle navi da carico alla fonda: una soluzione rivoluzionaria per l’epoca, che migliorò il sistema di imbarco dei minerali, fino ad allora trasportati per mezzo di contenitori caricati a spalla sulle barche a vela, pesanti 25 tonnellate.
Oltre Masua, a circa 8 chilometri verso nord, si trova il bivio per Cala Domestica, uno spettacolo con sorpresa: arrivati alla spiaggia, si può imboccare una breve galleria scavata dai minatori, a destra, sulla scogliera, che porta alla “caletta”, quasi una piscina privata. A sinistra invece, sale un sentiero per la torre spagnola che domina il paesaggio, usata come punto di osservazione anche durante la Seconda guerra mondiale. Spingendosi fino a Buggerru, si può visitare la galleria Henry, la più importante struttura della miniera di Planu Sartu (1865), percorsa un tempo da una locomotiva a vapore avveniristica, che soppiantò l’uso dei muli per portare il minerale dalle miniere alle laverie, e caratterizzata da numerose aperture sulle falesie e sul mare (visite su prenotazione).
Viaggio nella storia salendo al tempio di Antas, a una decina di chilometri a sud di Fluminimaggiore: alla fondazione punica (500 a.C. ca.) dedicata al dio cartaginese Sid Addir si sovrappose quella romana in età augustea (a cavallo tra I sec. a. C. e I sec. d.C.).
Turchesi ipnotici
Scendendo invece a sud per una settantina di chilometri rispetto a Portoscuso, si arriva a Chia ed ecco sette paradisi a scelta: Insula Manna, il Porticciolo, la Colonia, Spiaggia del Morto, Campana, Su Giudeu, Cala Cipolla.
Quasi inutile soffermarsi su descrizioni singole, non si sbaglia con nessuna, ma giusto per dare il “la”, si può iniziare da Su Giudeu e Campana, attigue (basta scavalcare agevolmente a piedi un basso promontorio roccioso); accanto alla prima c’è uno stagno popolato da uccelli marini e – come la seconda – la spiaggia è un morbido tappeto di sabbia bianca, tanto gentile da non essere nemmeno appiccicosa, degradante verso un’acqua dalle sfumature che ascendono dal puro cristallo al blu profondo, passando per un azzurro angelico e un turchese ipnotico: uniche.
Sul piano del tonno
Nei pressi di Chia si trova porto Teulada, a cui si giunge percorrendo un rettilineo fiancheggiato da pini marittimi, fichi d’India e gonfi oleandri fioriti, quasi il viale d’accesso ad una sontuosa dimora e non una qualunque provinciale. Peraltro, è un panorama tipico di gran parte delle litoranee sarde.
Terminate le tappe esterne, va visitata e conosciuta la nostra base, Portoscuso, che vanta una bellissima spiaggia raggiungibile in pochi minuti dal centro grazie ad una passeggiata panoramica: porto Paglietto.
Le reti dei reti tonnarotti del giorno d’oggi
La tonnara di Portoscuso, guardando verso il mare
Ma, aldilà del mare, è un paese carico di storia e tradizione, come testimoniano la torre spagnola e la secolare tonnara “Su Pranu” (il piano), una delle più grandi del Mediterraneo. La parola designa sia l'insieme di reti usate per la pesca, detta mattanza, sia la sede di uscita in mare, rientro e lavorazione di parte del tonno, pesce di cui non si butta via niente; nella tonnara, infatti, i lavoranti ripulivano e tenevano (o rivendevano) ciò che loro veniva lasciato, perché non destinato al confezionamento: la bottarga (le uova), le interiora e il cuore.
Per eliminare il sangue si usa la salamoia e per verificare la giusta misura di acqua e sale si getta una patata nel recipiente: quando sale a galla, la soluzione è pronta.
Il sito del Comune non è molto generoso di informazioni turistiche, ma grande disponibilità si trova all’Informacittà, adiacente alla piazza della chiesa dedicata alla patrona, S. Maria d’Itria, tramite cui è possibile contattare il presidente dell’associazione no profit Sa Fabbrica, il gentile Demetrio Sanna, ed organizzare una visita guidata alla tonnara, edificio vastissimo su tre lati, il quarto aperto sulle acque, risalente al Cinquecento, che ha il suo ingresso dalla suddetta piazza e che si allarga verso il mare con uno spiazzo di circa 5.000 metri quadrati.
Il rais durante la mattanza in una foto d’epoca
La costruzione aveva piena autosufficienza: al piano superiore centrale la parte padronale, poi quella per i collaboratori (il rais, ovvero il capo, il coordinatore dei pescatori durante la mattanza, il vice rais e il guardiano) e, secondo gerarchia, al piano terra is barraccas, le stanze dei tonnarotti, la ciurma; le ali comprendono una chiesetta (S. Antonio da Padova, protettore dei tonnarotti stessi), magazzini e officine, rimesse per le barche, un forno e, esternamente, un pozzo. Varie porzioni sono ora in fase di ristrutturazione, ma per garantire la salvaguardia nel futuro, Sanna auspica un determinante intervento dell’UNESCO.
Le stanze padronali – spazi inaspettatamente ampi, coperti da un tetto a capriate lignee, con caratteristico intreccio di canne – attualmente ospitano un’esposizione di foto d’epoca del luogo, a ricostruirne usi e costumi, in particolare legati all’attività della tonnara.
Storie di pirati
La torre che svetta in cima al paese e domina il golfo risale alla fine del Cinquecento, eretta dal Real Governo spagnolo a scopo di avvistamento dei pirati e deposito di coralli e ad essa, forse, è legata anche l’etimologia di Portoscuso, che generalmente è tradotto come “porto nascosto”: un’altra corrente di pensiero, ben supportata dallo studioso Ernesto Valdès, la spiega come “porto affrancato, esentato” dalla presenza (diffusissima sulla costa) di una torre, che, infatti, viene innalzata solo dopo la fondazione della tonnara.
Il pericolo qui arrivava dal mare: dell’aggressione più cruenta fu feroce protagonista il corsaro Estamuth, ammiraglio delle galere di Biserta, che spesso faceva tappa alla prospiciente isola di S. Antioco per riposo e manutenzione delle navi; nel 1636 sbarcò e rase al suolo la torre, che fu però prontamente ricostruita. Una seconda, più terribile, incursione, si ebbe nel 1660: la tonnara fu depredata, le barche bruciate, la popolazione fuggì verso l'interno, ma invano: i più fortunati furono catturati e imprigionati, gli altri uccisi. Il luogo del massacro – arrivando dalla strada panoramica, sulla sinistra, poco prima di entrare a Portoscuso – è ricordato con il nome di monte Dolorosu (monte del Dolore) e oggi si staglia nel cielo una croce di ferro, ai cui piedi si legge un epitaffio, posto nel 1976:

La croce sul Monte Dolorosu
“Barbaramente trucidati
il 4 giugno 1636 dal famigerato
corsaro d'Algeri Estamuth,
con le reliquie dei martiri turritani,
Gavino Proto Gianuario,
all'ombra della croce,
riposano i nostri resti mortali.
PORTOSCUSESI e PELLEGRINI,
che calpestate questa terra sacra intrisa del nostro sangue
per la fede, la civiltà e la libertà,
siate fieri del nostro sacrificio e
sia anche per voi un monito
che l'odio distrugge e l'amore unisce".
Storicamente manca riscontro fra le date segnalate, 1636 e 1660: certo è che i corsari invasero e saccheggiarono e che il monte Dolorosu fu muto testimone di un orrore. Aldilà dell’incertezza cronologica, rimane la realtà di una violenza cieca, che impregna di sacralità quel sito, circondato dal silenzio del paesaggio.
Due isole fronteggiano Portoscuso: a S. Antioco si arriva in auto e vale una gita per le spiagge e per le vestigia storiche; a S. Pietro si arriva in traghetto e val la pena di visitare la cittadina di Carloforte per mangiare… la farinata ligure! Già, perché qui si insediò a metà Settecento un gruppo di coloni originario di Pegli (Genova), emigrati dall’isola di Tabarka (presso Biserta, sulla costa meridionale dell’Africa), dove non godevano più di vita facile. A Carloforte non si parla sardo, ma correntemente il dialetto Genoise d'Otre Mer, diffuso nei secoli passati nella Repubblica marinara genovese e nei suoi possedimenti.
I nostri consigli
Qualche finale consiglio spiccio per orientare le escursioni e rendere il vostro viaggio ancora più piacevole:
Valutate prima dove tira il vento del giorno e poi scegliete la spiaggia: la Sardegna è piacevolmente ventilata, spesso però il Maestrale carica e gli ombrelloni volano;
Non svilite la bellezza di questi luoghi con i rifiuti occasionali: la raccolta differenziata è presente in quasi tutti i lidi;
Le spiagge in questa zona sono libere (pochi gli stabilimenti balneari e solo in quelle più estese), per cui è consigliabile armarsi di beach kit fai-da-te: teli, ombrellone o tendina (con possibilità di zavorra anti-vento o funi), borsa frigo con Ichnusa d’ordinanza, ovvero la birra sarda per eccellenza, il cui nome riprende quello antico dell’isola.
Il week-end porta maggior affluenza e il mese più affollato è certamente agosto: allarme rosso le prime tre settimane, per il resto dell’estate le spiagge descritte sono ben lontane dal turismo di massa ed è questo il loro valore aggiunto.