Assai pregevole l’intervista di Liliana Rosano al documentarista siciliano Luca Vullo. Interessante il modo in cui Vullo ci parla dell’Inghilterra, della Londra di oggigiorno e degli italiani che in Gran Bretagna cercano quello che non trovano, e forse mai troverebbero, in Italia. Molto amaro, anche umiliante, tutto questo. Umiliante sapere dalle parole dell’autore di “Influx” che gli inglesi ci amano, ma non ci stimano.
Un tempo non era proprio così. Un tempo i “Britons” ci stimavano, ci rispettavano.
Si stava bene in Italia, anzi, benone. Stava benino anche la famiglia dell’operaio specializzato della TETI (anticipratrice della SIP), e se la passava ancor meglio la famiglia d’un tecnico dell’ENI. Vivevamo in un’Italia che marciava, creava lavoro, inventava. Esportava.
Eppure ci prendeva il desiderio di viaggiare, scoprire, conoscere. In quelli della mia generazione (i nati grosso modo fra il 1943 e il 1948) la curiosità intellettuale appariva sconfinata. A fornirci la propulsione giusta – anche se, forse, non ve ne sarebbe stato nemmeno bisogno – erano la narrativa, il cinema, la musica, la moda, lo sport. Parliamo della narrativa di David Storey e Alan Sillitoe; del “New English Cinema” lanciato da Lindsay Anderson, della musica creata e proposta dai Beatles, dai Rolling Stones, e quindi da Herman Hermit’s, The Move, Cupid’s Inspiration, The Hollies, Procol Harum; della moda nella originale, smagliante interpretazione di Mary Quant e di tanti altri stilisti e stiliste meno famosi dell’inventrice della minigonna. Dello Sport “British”, come esso si presentava col Calcio e col Rugby: con assi quali Bobby Charlton, George Best, Bobby Moore; e Barry John, Gareth Edwards, Gerald Davies.
Arrivammo a frotte. La nostra fu un’ondata che da Dover e Folkestone investì Londra: “avanguardie” si spinsero fino a Manchester, Liverpool, Edimburgo; altre ancora piegarono a est, verso l’East Anglia, o a ovest, in direzione di Bristol – della Bristol di cui parla Stevenson nel suo memorabile “L’isola del tesoro”: anche questo c’influenzava; anche questo c’ispirava! Non credo che fossimo tantissimi. Fra il 1964, anno dell’”offensiva” italiana oltremanica, quella “fashionable”, e il 1969, anno in cui rientrai definitivamente in Italia dopo essere sbarcato in Inghilterra nel 1967, è difficile dire quanti italiani, soprattutto quelli fra i diciotto e i venticinque anni, approdarono in quel Paese che ora esercitava un’attrazione maggiore rispetto a quella esercitata negli anni Trenta o Quaranta, quando la meta, la “sola” meta era Parigi…
Direi che, a occhio e croce, nella seconda metà degli anni Sessanta, furono almeno cinquantamila gli italiani che si stabilirono in Inghilterra, ma forse il numero fu assai più elevato. Ma che cosa ci spingeva davvero verso “la perfida Albione” e non più verso Parigi? C’era comunicativa fra gli italiani d’allora; ce n’era parecchia: per rendersene conto bastava montare su un treno delle Ferrovie dello Stato o su “corriere” (quelle col muso ancora lungo e col portabagagli sistemato sul tetto del panciuto automezzo) che andassero da Roma a Campobasso o da Firenze a Pratovecchio-Stia. O bastava anche noleggiare sdraio e ombrellone a Viareggio o a Forte dei Marmi, a Positano o a Sestri. Ma quello che cercavamo noi, specie quelli che da adolescenti non avevano avuto la fortuna d’entrare nelle grazie d’una “nave-scuola” (la signora, la donna sposata, quella sui trenta o trentacinque annoiata dal marito “metodico”, dal marito “prevedibile” e perciò in cerca di ‘violente’ emozioni), era una ben maggiore comunicativa con le ragazze, una “speditezza”, una “immediatezza” superiori, “fulminee”. E questo senza sentirci dire “ma tu hai intenzione di sposarmi”?? Il nostro “sogno”: trovare in una discoteca (il “dancing” di allora) una ragazza disposta a “pomiciare” al primo incontro! Di fanciulle così se ne trovavano (ma non molte) a Firenze, Arezzo, Pistoia, Livorno, Milano, ma non certo a Roma e neanche a Napoli, Salerno, Bari, Lecce, Taranto, Catanzaro, Reggio Calabria, Palermo.
Era tuttavia ben altro ad attirarci a quell’epoca in Inghilterra, a Londra. Era la “uniqueness” (la unicità) dell’Inghilterra studiata sui libri, rappresentata in campo dal Liverpool e dal Manchester United, la unicità delle Nazionali di rugby inglese, scozzese, gallese, irlandese che si battevano l’un l’altra con fervore, con animosità “medievali”… Era l’Inghilterra vista al cinema: il cinema che ci offriva Julie Christie e Michael Caine, Terence Stamp e Susannah York, Vanessa Redgrave e David Hemmings. Il “New English Cinema” di “This Sporting Life”, “The L-Shaped Room”, “Loneliness Of A Long Distance Runner”. E anche la cinematografia del meraviglioso “Blow Up” realizzato nel ‘67 da Antonioni.
Vi trovammo quello che cercavamo: rapporti personali ancora più stretti, più “scorrevoli”, più “sinceri”, soprattutto disinteressati di quelli che si riscontravano in Italia. Rapporti tutt’altro che influenzati dal censo! E qui ci rendemmo conto del fasullo mito dell’immobilità sociale della civiltà inglese, di cui aveva comunque già scritto negli anni Trenta, e in modo egregio, Huizinga, il viaggiatore olandese, l’anglofilo olandese rappresentante di un’Europa bellissima, caratterizzata da infinite sfumature. Altro che “immobilità”! Notammo presto che al ricco macellaio o all’industriale figlio di maniscalchi o di tornitori, era ben permesso far iscrivere la propria prole a Eton, a Harrow, a Charterhouse. Era “anche” questo il cemento della società britannica che, non a caso, seppe vincere due guerre mondiali.
Trovammo la beltà della “Britishness”: la bellezza dei pesi, delle misure, delle proporzioni così diverse da quelle continentali. L’”allegria” della guida automobilistica a sinistra! Il fascino del “pub”, del ‘pub’ inteclassista. La singolarità delle “cafeterias”, dove era norma spontanea che una o più persone si sedessero al tavolo già occupato da una o da altre persone se non v’erano altri tavoli liberi. Impensabile, questo, in Italia, dove nessuno, neanche il soggetto più sfrontato, più spavaldo, avrebbe osato piazzarsi appunto a un tavolino bell’e preso.
Trovammo l’amore per l’Italia, del resto già celebrato da Shakespeare, Shelley, Byron, Keats; da Lord Rothermere, Lord Sydenham, Lady Sutherland; dal Duca di Windsor che per sposare la conturbante americana Wally Simpson, abdicò! Trovammo, sia in professionisti che in “common citizens”, una commovente devozione verso la Roma di Scipione, Cesare, Augusto: verso la Roma che aveva schiacciato la loro eroicissima Boadicea. Trovammo un interesse profondo, addirittura epidermico, per la civiltà etrusca. Un medico chirurgo cui nel ’68 dovetti fare ricorso per una brutta bronchite, nel proprio studio di South Kensington (il “fashionable” South Kensington, Liberty, ‘Edwardian’ e al tempo stesso ‘Georgian’) teneva la assai fedele riproduzione settecentesca di un affresco raffigurante due sensuali, appassionati amanti etruschi, etruschi di Cerveteri.
Trovammo un amore sperticato per la Ferrari, la Maserati, la Lancia. Non si parlava ancora di alta gastronomia in Inghilterra: si volava, appunto, parecchio più in alto. Gli inglesi erano ben contenti di gustare lasagne e spaghetti nella celebre catena di ristoranti “Dino’s”, ma, giustissimamente, conservavano un amore quasi commovente per il loro roast-beef, per la “kidney pie”, il “fish and chips” e il grande, solenne, intramontabile ‘breakfast’: uova al burro (mai fritte nell’olio!), fagioli in salsa rossa, ‘bacon’, “toasts with butter and jam”, “white coffee”, succo d’arancia.
Frequentavamo con assiduità il “Troubador”, il “Las Vegas Cafè”, “Il Barino”, “The Eyebrow”, “The Empire Grill”, il “Blaisie’s Club”, locali che si trovavano a South Kensington, fra Cromwell Road e Fulham Road, la “Swinging London”, la seducente, caleidoscopica, irresistibile “Swinging London” in cui ti potevi imbattere in Lord Snowdon, marito della Principessa Margaret; in Paul McCartney, in Vanessa e Lynn Redgrave, in Rodney Marsh, formidabile centravanti dei Queen’s Park Rangers, tipo assai “cool”, biondo, capelli lunghi, stile divinamente ‘casual’; un bel tenebroso: “a woman-eater”…! Allo stesso tavolo vedevi un colonnello in pensione, un meccanico d’automobili, un’infermiera venuta dall’Ulster, uno studente iraniano. O vi scorgevi un drammaturgo inglese alquanto promettente che conversava con una studentessa francese. Tutto questo al suono delle melodie, sì, dei Beatles, degli Status Quo, di Bob Dylan, Petula Clark, Cilla Black, Dusty Sprinfield; Sinatra e Dean Martin. Londra, l’Inghilterra, allora erano fatte così.
Non legavamo granchè con altri italiani: piuttosto, avevamo amici inglesi, scozzesi, australiani, sudafricani, canadesi, francesi, qualche brasiliano, qualche argentino. Rifulgeva così un cosmopolitismo educativo, formativo. Un cosmopolitismo illuminante, quindi prezioso, essenziale per il nostro sviluppo mentale, intellettuale. L’Inghilterra ci dette la coscienza di noi stessi, di noi italiani, ancor più di quella che instillavano in noi falsi “amici” dei giovani, i falsi “amici” sui quaranta o cinquant’anni che su quotidiani e periodici lucravano in modo aberrante, con spudoratezza, proprio su di noi, su quelli nati all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale.
Non fummo mai discriminati dagli inglesi. Chi parla di “arroganza”, di “albagia”, di “superbia” inglesi, non sa quel che dice: è un incolto che procede per sentito dire; un individuo assai limitato e legato perciò a “clichè”. Dagli inglesi ricevemmo sempre rispetto, stima. Eravamo “i figli di Roma”! Eravamo gli “eredi” di Leonardo, Michelangelo, Giotto. Eravamo i connazionali di Enzo Ferrari, Livio Berruti, Gianni Rivera. Eravamo creatori del buon gusto. Eravamo gente gradevole, perfino interessante. Ne ricordo di inglesi che nei nostri confronti mostravano una certa soggezione. Ed erano discendenti di chi aveva sbaragliato Napoleone, sbaragliato l’”Armada” spagnola; contribuito in modo decisivo a piegare per sempre le Potenze dell’Asse… Ci guardavano come se si fossero trovati, addirittura trepidanti, in attesa della “rivelazione”, d’un colpo d’ala da cui trarre essi stessi per primi ispirazione.
Mostravano umiltà, sissignori, umiltà. Il loro “sapere” era degno di nota, eppure non lo sbandieravano: il palcoscenico sempre lo lasciarono a noi italiani. Per loro rappresentavamo un bello stile: “lo” stile. Per loro eravamo estrosi, duttili; di bella compagnia. Per loro avevamo non poco da insegnare. Nel 1969, Camere di Commercio inglesi assegnarono all’ICE (l’Istituto Italiano per il Commercio Estero) la palma di miglior organismo continentale nel Regno Unito.
Ecco, “come eravamo"!