Vivere l’esperienza del terremoto all’interno della grotta è stato come ascoltare i calci di un bambino poggiando l’orecchio sul ventre della madre. Qualcosa di misterioso e naturale al tempo stesso.
La mia “dimora” temporanea aveva retto benissimo alla breve scossa, che aveva invece allarmato l’intera città.
In quel mondo in cui vetri e suppellettili non servono, in cui tutto è eterno, mi sentivo ormai protetto e sicuro. Tuttavia, non bisogna mai sottovalutare il rischio in questi ambienti .
A pensarci bene, sarebbe bastato solo il distacco del masso sporgente sopra il campo per farmi precipitare nel pozzo sottostante. A occhio pesava un paio di tonnellate ed era più largo del campo stesso. Probabilmente sarebbe rimasto al suo posto per altri duemila anni, ma nella fantasia di uno speleonauta tutto può accadere. Mi capitava di immaginare, con orrore, quanto sarebbe stato tremendo e spaventoso ritrovarmi al buio dopo uno schianto, magari a testa in giù, senza poter respirare, con metri cubi di detriti a schiacciarmi i polmoni.
Un giorno un coleottero fece capolino nel mio campo. Era uno di quei giorni di nervosismo e tensione per la gran quantità di ospiti indesiderati che mi ronzavano attorno.
Senza riflettere, lo afferrai e lo scaraventai in fondo al tetro pozzo sottostante, sperando che trovasse la morte nell’oscurità, lontano da me.
A distanza di due o tre giorni, mentre leggevo “The North Face”, la leggendaria prima scalata della Nord dell’ Heiger, vidi con la coda dell’occhio qualcosa che si arrampicava tra le sporgenti concrezioni davanti a me. Era il coleottero. Con tenacia e forza degne del migliore alpinista, il piccolo insetto risaliva una parete difficile e strapiombante. Provai stima per lui e vergogna per me. Avevo cercato di ucciderlo tirandolo giù nel pozzo e Dio solo sa che avventure aveva passato per ritornare fino al campo, attirato dalla luce. Lo chiamai “Gino” e costruii per lui un terraio in una bottiglia di plastica, con dentro anche un pezzetto di pane che divorò in breve tempo.
Gino venne riportato alla luce e liberato subito dopo, da un tecnico della squadra del CNSAS, passato per informarsi sullo stato delle batterie da campo.
Gli ultimi giorni in grotta il mio corpo era ormai perfettamente ambientato. Cominciai a spellare, mi stavo “depigmentando”. La pelle nuova era più chiara e sensibile di quella che perdevo.
Al buio assoluto, vedevo le mie mani piuttosto nitidamente, quando le avvicinavo al volto.
Arrivò l’ultimo giorno. L’esperimento era riuscito. Mentre il Cnsas preparava le operazioni di recupero in grotta, la Forestale e la Polizia Municipale si curavano della viabilità in strada. Per primi entrarono i tecnici del CNSAS e il medico, dott. Angelo Napoli, per un controllo.
Mi sentivo come ubriaco di persone e la mia pressione sanguigna era alle stelle, con una massima di 220.
Dopo alcune interviste di rito e il colloquio con l’amico psicologo Martino Lo Cascio, sceso in grotta per la prima volta, fu il mio turno di uscire.
Sapevo che con tutta probabilità non avrei mai più rivisto la mia grotta e tutti i suoi abitanti. Mi invase la solita malinconia di chi parte per non tornare più.
Non dimenticherò mai quando la fresca aria primaverile mi sfiorò il viso, appena fuori dal pozzo. Sebbene indossassi degli spessi occhiali da saldatore, capivo chi avevo intorno dalle voci, ma ciò che mi colpì fu la quantità di odori che riuscivo a distinguere. Anche quelli delle persone. Fuori dalla grotta era esplosa la primavera. I ronzii dei mosconi erano lievi e lontani. Altri insetti, ognuno con un ronzio diverso, si davano da fare sui fiori appena sbocciati. Avevo una percezione sensoriale completa e a trecentosessanta gradi, non serviva vedere. Purtroppo questa sensibilità svanì dopo circa ventiquattro ore, quando tornai al “mondo civile” abbandonando quell’universo parallelo in cui avevo vissuto per circa settecento ore.
Quando ripenso alla mia grotta, la ricordo come un’amica, con la differenza che anche tra cinquanta o sessant’anni essa sarà sempre come l’ho lasciata: eterna, bella e silenziosa.
Quante cose al mondo puoi ricordare con la certezza che non siano mai cambiate?
Dalla prossima volta il reportage sulla risalita a piedi e a nuoto del fiume Oreto, il fiume inquinato di Palermo, simbolo del degrado ambientale della città.