“Quel fango di Falcone”. Frasetta vile, perché il destinatario è morto. Frasetta miserabile, perché ruffianamente protesa ad ingraziarsi l’interlocutore, cui, evidentemente, il calciatore Fabrizio Miccoli riteneva potesse piacere. Giacchè per darsi appuntamento, “ci vediamo dove c’è l’albero di quel fango di Falcone”, quel riferimento vilipendioso non era indispensabile: è servita solo a indurirsi, ad apparire “uomo”, a vestire le armi dell’infamia necrofila. Confesso di ignorare le specifiche qualità pedatorie dell’eroe, ma risulta abbastanza noto fra i pupi del subbuteo a diffusione satellitare: già sana pratica atletica, oggi, e non da ieri, espressione dell’inautentico in formato nazionalpopolare, per scomodare il più celebre aggettivo della storia televisiva.
Questo subbuteo, tutto, non solo alcune sue singole incarnazioni, è due volte inautentico. In primo luogo, perché possiede molto poco della virtù atletica, quel compendio di qualità che, per esempio, concorreva a definire la Paideia, cioè l’educazione, civile e morale, dell’uomo nell’Antica Grecia: la capacità fisica, la disciplina di movimenti che si perfezionano ad ogni ripetizione, il dominio della fatica, il riscatto del corpo (da mero sostrato materiale dell’essere a sua piena espressione), servivano all’elevazione dell’uomo (a scanso di equivoci, uomo è il genere umano tutto: Artemide andava a caccia ch’era una meraviglia, Atena presiedeva alla “guerra secondo norma”, Demetra si curava del cibo, Afrodite turbava e si turbava, Era, per la parte sua, teneva il talamo, e all’origine ci fu Gea: schema semplice, ma armonioso e completo, “inclusivo” per i più à la page).
L’uomo veniva scolpito nei muscoli e nella ragione (lògos), esposta al loro cimento: “ragionare” con la propria fatica, il maggiore dei nostri limiti, domarla mentre morde, implica e impone una complessità armoniosa che, sola, giustifica l’unicità dell’uomo: non solo psiche, non solo corpo, ma la loro inscindibile unità. Solo così si poteva presentare alla visione di tutti, letteralmente, formato e pronto alla prestazione gloriosa non meno che all’autocontrollo, in guerra come nel governo civile. E, più o meno, questo stesso spirito, la dimensione atletica, dura e si perpetua in quanti, grandi e piccini, giocano e sudano, come più familiarmente si dice, “per il piacere di giocare”, cioè per una ragione propria alla dimensione atletica: non si tratta del fatto che non prendono soldi, ma del fatto che mentre lo fanno stanno bene, e stanno meglio perché lo fanno, studiano meglio, riflettono meglio, agiscono meglio, meglio stanno con gli altri. Sicchè identificare il valore dell’atletica con la sua gratuità, intesa come contrapposta agli ingaggi c.d. professionistici è un grave errore: l’atletica (o, come modernamente diciamo, lo sport) è virtuosa proprio perché non è gratuita, ma ha in sé ogni sua ragione: il gratuito non ha alcuna ragione. I soldi sono una ragione esterna, non propria, non autentica. Non è qui importante stabilire se siano un male o un bene in sé (immaginate che questione di lana caprina!), è che sono e rimangono altro dalla “ragione atletica”.
Ma questa roba è inautentica anche in un altro modo, connesso al precedente.
Se attribuiamo alla dimensione atletica valore a partire da una ragione esterna (per esempio diciamo che l’atletica è atletica anche quando è solo spettacolo) e poi neghiamo che questa ragione sia, in realtà, esterna, compiamo un’operazione indebita e, più o meno involontariamente, manipolatoria. L’atletica è anche spettacolo, ma per non essere privata di quel suo nucleo virtuoso (la formazione dell’uomo), la “visione” deve possedere qualcosa di quel nucleo: o lo spettatore guarda perché è anche un praticante, o perché è un genitore che presidia al compiuto sviluppo di quel nucleo virtuoso, o è un sostenitore-volontario che ci mette del suo e, quindi, nella “visione” compendia un’alta vocazione comunitaria; quello che conta è che la “visione” non sia solo visione. Altrimenti l’atletica viene “ridotta”, cioè privata dei suoi elementi essenziali, a “spettacolo”. Ancora una volta emerge un’improprietà, un “privare di ciò che è proprio”, non necessariamente un male in sé. Solo che questo rendere l’atletica altro da sé è un renderla inautentica. L’abbonato satellitare “puro”, che non presenta nessun intimo nesso con il “nucleo virtuoso”, personifica il secondo modo in cui il “subbuteo satellitare” risulta inautentico.
Ora i c.d. scandali (l’ultimo è stato annunciato pochi giorni fa: poi, vedremo) per unanime ammissione si pascono di questa inautenticità. Ma gli ingaggi cospicui, gli “aggiustamenti”, gli “aiutini chimici”, la superfetazione delle “puntate” di un serial che non deve mai fermarsi (non so più quante partite vengono disputate ogni anno), saranno anche sgradevoli, volgari, ma entro la logica dello show business non sono per nulla uno scandalo; oppure, sono scandalosamente normali, che è lo stesso.
Perciò se Miccoli, da “eroe satellitare”, si è svelato essere così clamorosamente autentico nella sua inautenticità, dov’è la sorpresa? E se, dopo uno spettacolo, se n’è subito inscenato un altro, con lacrime e pentimento a profusione per il godimento dell’imperturbabile satellite, qual è l’anomalia? Specie a certe latitudini, lacrime e pentimento costituiscono un canovaccio fisso. Qui almeno, non è un pluriomicida che recita la sua redenzione, ma una starlette che ci ha spiegato quant’è mediocre.