“Macelleria messicana”; con questa espressione si intendono episodi di violenza smisurata e ingiustificabile; solitamente in teatri di guerra. Nasce, probabilmente, in occasione della rivoluzione messicana, quando i corrispondenti dei giornali stranieri, un po’ perché è vero, un po’ per eccitare i lettori, descrivono un Messico preda di gesta efferate consumate da bande di ribelli crudeli e spietati. I giornalisti americani scrivono di “Mexican standoff”: situazioni tipiche di una guerriglia senza quartiere.
Di “macelleria messicana” parlano, nell’aprile del 1945 due capi dell’antifascismo, Ferruccio Parri, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale, e Leo Valiani; esprimono in questo modo la loro ripugnanza per i macabri fatti di piazzale Loreto: dove il 29 aprile i corpi di Benito Mussolini, Claretta Petacci, e altri gerarchi fascisti sono appesi per i piedi alla tettoia di una pompa di benzina. Lo stesso luogo dove, otto mesi prima i fascisti hanno ucciso 15 partigiani, e poi esposto nello stesso modo i cadaveri.

Quello che è accaduto, più di un anno fa, all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere, grosso paese vicino Caserta, è a tutti gli effetti un episodio che fa parte dell’infinito capitolo di violenze che si può definire di “macelleria messicana”.
Il contesto: i fatti risalgono al 6 aprile 2020. Il Giudice per le Indagini Preliminari usa un’espressione che non lascia margine ad equivoco: “orribile mattanza”. Esistono dei filmati. Potrebbero riferirsi a situazioni che si consumano in un paese africano, tra i talebani, o in una repubblichetta del centro o sud America. No, invece. Le immagini si riferiscono a fatti che sono accaduti in Italia. Fatti isolati? Non frequentissimi, per fortuna. Ma insomma: se tutto il mondo si inginocchia per scusarsi di manifestazioni di razzismo; se negli Stati Uniti in tanti rendono omaggio in questo modo ai tanti George Floyd vittime della violenza della polizia; anche in Italia non mancano buone ragioni per inginocchiarsi e chiedere scusa. Per molti la memoria non è una virtù. I tragici fatti del G8 di Genova, diciannove anni fa: alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto, una quantità di funzionari dello Stato, uomini in divisa, infieriscono su persone inermi; le massacrano di botte, immaginano che questi loro ignobili comportamenti non sarebbero diventati pubblici o confidano nell’impunità. Ma sconvolgente quello che accade in una stazione dei carabinieri a Roma, un ragazzo, Stefano Cucchi, massacrato di botte, definirla tortura non è esagerato. Come lui, i casi simili di Aldo Bianzino, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Francesco Mastrogiovanni, e decine di altri…Entrano vivi in una caserma dei carabinieri, in un ufficio di polizia; ne escono morti. Per non parlare di quello che capita nei circuiti carcerari.
Per quel che riguarda il G8 a Genova, è un funzionario di polizia, il vice-questore Michelangelo Fournier a raccontare di umiliazioni degradanti, atti crudeli, pugni, ceffoni, sigarette spente su parti intime del corpo…
Anche per i fatti all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere, si può (e si deve) parlare di tortura. Pluriaggravata. Gli agenti della polizia penitenziaria indagati sono accusati di una vera e propria azione punitiva, da loro stessi descritta come “abbattimento dei vitelli”. Così definiscono i detenuti da massacrare di botte.
Salvatore, 45 anni, spacciatore, detenuto nel reparto Milo; è uno dei detenuti picchiati; racconta aver preso botte in testa, alla schiena, alle gambe, al volto: “Arrivarono con i caschi per non farsi riconoscere. Mi colpiscono in testa e sulla schiena. Nelle celle tremavano tutti”.
Un altro detenuto, un algerino, si chiamava Hakimi Lamine: durante la “carica” di torture, gli fratturano il naso e dopo un mese di abbandono in isolamento, si uccide con una overdose di psicofarmaci. Vincenzo Cacace, ora scarcerato, nei fotogrammi ripresi dalle telecamere interne, è il detenuto inchiodato in una carrozzina; e tuttavia lo massacrano con i manganelli, lo picchiano alla testa e al petto: “Sono stati disumani”, sospira.
Quello che ho visto, dice Salvatore, “non lo posso dimenticare. Alcuni segni li porto sulla pelle, altri stanno dentro e non me li levo più di dosso. La mia schiena era diventata un bersaglio. Lividi, ematomi, versamento di liquidi portati per mesi. Ma parliamo degli effetti che si vedono. Poi ci sono quelli che non si vedono. Quando sono andato fuori dal carcere, non ho più dormito per settimane. La rabbia, la paura, lo choc, l’impotenza. Non lo so che cosa è stato. So di avere visto, in quelle ore, in carcere, molti che tremavano vicino a me, nelle celle. Sono venute queste guardie da fuori… Lo so, non si chiamano guardie né secondini, ma tra noi sapete c’è il linguaggio del carcere. Comunque un gruppo che si vedeva subito: intenzionato al peggio. Venuto per fare squadrismo, con i caschi, i manganelli, tutti coperti per non farsi riconoscere. Già quando li vedi così capisci subito che non stanno venendo in pace. Ci presero con la forza. Alcuni li portarono in una sala ricreativa, a noi ci vennero a prendere nelle celle, uno per uno. Si fiondarono innanzitutto nei nostri armadietti: hanno preso i nostri rasoi, ci hanno tagliato le barbe. Ci costringevano a uscire e ci buttavano nei corridoi. Dove c’erano decine di loro a destra e a sinistra. Noi passavamo in mezzo: arrivavano manganelli, calci, pugni. Io ho preso un sacco di cazzotti e colpi alla schiena, me l’hanno fotografata, sta agli atti…Mi dicevano: ‘Vi uccidiamo. Non vi illudete, qui comandiamo noi'”.
I filmati in mano agli inquirenti, fugano ogni dubbio. Gli agenti coinvolti in questa inquietante vicenda non hanno scusanti e/o attenuanti. E tuttavia, si deve andare al di là dell’episodio singolo. La vicenda è la dimostrazione (ennesima) che la gestione del ministro della Giustizia di allora (il grillino Alfonso Bonafede), e del direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Francesco Basentini) è stata pessima.
La “macelleria messicana” all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere semplicemente non si spiega: in quel carcere non c’è stata rivolta, ma una semplice protesta, si chiedevano mascherine anti-covid e condizioni di detenzione che evitassero il rischio di essere contagiati dal virus. La “risposta” degli agenti è stata del tutto gratuita. I parenti dei detenuti, per inciso, segnalano che non è stata l’unica violenza. Altre ce ne sono state, in altri istituti. A Foggia centinaia di detenuti trasferiti di notte, in pigiama, successivamente pestati nel carcere di destinazione. I detenuti delle carceri emiliane mandati a in Veneto, a Tolmezzo. Si sono usati metodi fuori dalla legalità. Le responsabilità vanno cercate in “alto”. Il DAP in sostanza, ha autorizzato queste azioni; il ministro della Giustizia le ha avallate, non condannandole. Non sono stati in grado di affrontare con ragionevolezza e umanità, una situazione certamente delicata e difficile. Si disse che le rivolte erano opera della mafia; è dimostrato che partirono dalla parte più disagiata della popolazione detenuta: tossicodipendenti e detenuti con problemi psichiatrici.

Per riassumere i fatti: la protesta, come detto, è dell’aprile 2020. Oltre un anno fa. A protesta esaurita, la vendetta: molti detenuti sono picchiati e letteralmente torturati da un gruppo numeroso ed organizzato di guardie carcerarie. Quanto è accaduto è ‘semplicemente’ terrificante, indegno per un Paese civile. Episodi, comportamenti come questi sono la cifra di una dittatura, di un Paese oppresso da un regime totalitario. Di tutta evidenza che molti in quei giorni di aprile, hanno dimenticato cosa prescrive l’articolo 27 della Costituzione: che vieta i trattamenti inumani e degradanti in carcere.
E’ da un anno che si sa che a Santa Maria Capua Vetere è accaduto ‘qualcosa’ di intollerabile, grave. L’indifferenza, l’inerzia di tanti che pure avrebbero potuto parlare, dire, fare, è inquietante almeno quanto lo stesso episodio. Ora, il bubbone è scoppiato. Che sia fatta chiarezza è interesse degli stessi agenti della polizia penitenziaria, dell’intera comunità carceraria. Loro per primi dovrebbero levare la loro voce e invocare che la legge sia applicata; che diritto e giustizia siano garantiti.
La documentazione raccolta dagli inquirenti non lascia margine ad equivoci: per il Giudice per le indagini preliminari si tratta di violenze premeditate: “Li abbattiamo come vitelli”, “domani chiave e piccone”, “domate il bestiame”, si legge nei messaggi delle chat trovate nei cellulari degli agenti della polizia penitenziaria che preparavano il pestaggio. Già a settembre si sapeva di questi messaggi, e anche di video; di coperture, depistaggi, “non so”, “non ricordo”. Per il procuratore aggiunto Alessandro Milita, è “uno dei più drammatici episodi di violenza di massa ai danni dei detenuti, in uno dei più importanti istituti penitenziari della Campania…è emerso chiaramente un uso massiccio e indiscriminato, del tutto ingiustificato, di ogni sorta di violenza fisica e morale ai danni dei detenuti…I pestaggi non sono stati frutto di un’estemporanea escandescenza ma sono stati accuratamente pianificati e svolti con modalità tali da impedire ai detenuti di riconoscere i propri aggressori“.
Gli agenti della polizia penitenziaria secondo il GIP formano un corridoio umano al cui interno sono costretti a transitare i detenuti: “Venivano inferti un numero impressionante di calci, pugni, schiaffi alla nuca e violenti colpi di manganello, che le vittime non riuscivano in alcun modo a evitare“. Nell’ordinanza di custodia cautelare, oltre 2mila pagine, si racconta di un detenuto costretto a trascinarsi in ginocchio, picchiato con calci e pugni. Quando il detenuto prova a proteggersi, viene colpito sulle nocche delle dita.
Il nuovo ministro della Giustizia, l’ex presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, di una “cifra” ben diversa dal suo predecessore, non ha caso parla di oltraggio e offesa intollerabili alla Costituzione.

In questa vicenda c’’è poi un altro aspetto non meno importante, che va sollevato, non lo si può ignorare. Gli agenti della polizia carceraria coinvolti in questa brutta storia, come chiunque, hanno il diritto a essere considerati innocenti fino a quando non saranno certificati colpevoli da una sentenza di tribunale. A distanza di oltre un anno dai fatti contestati, qual è il senso di questa ‘retata’ che prevede misure cautelari, alcune in carcere, altre ai domiciliari? Si è ravvisato, da parte della cinquantina di agenti arrestati la possibilità di una fuga? Oppure di un inquinamento delle prove? O ancora: la reiterazione del reato? Insomma, perché questo provvedimento di preventiva carcerazione? Su cosa si basa, si fonda? Ancora una volta ci sembra se ne faccia un uso disinvolto. Ancora una volta sembra di assistere all’ennesima inutile spettacolarizzazione… Non si dimentica l’ineffabile teorizzare di un magistrato molto abile nel far parlare di sé: “Non li arrestiamo per farli parlare; ma se parlano non li arrestiamo più”.
Se gli agenti della polizia penitenziaria sono colpevoli (e di cosa), lo stabilirà il processo. Subito però si può esprimere un’obiezione: come si giustificano arresti in carcere e detenzioni domiciliari? Gli arresti preventivi si giustificano per il pericolo di fuga, la reiterazione del reato, l’inquinamento di eventuali prove. Per ben quattordici mesi (cioè da quando si sono svolti i fatti), non si è avvertito nessuno dei sopra citati pericoli e rischi. Al quindicesimo sì? Curioso. Prima o poi è augurabile che ci venga spiegato.