A meno che una persona non si traferisca all’estero, non capita spesso di sentirsi chiedere in che lingua si pensi. E sfido chiunque a non rimanere perplesso nell’evenienza di una tale domanda. Nel mio caso, fino al momento del trasferimento, non avevo considerato che la lingua potesse influenzare il pensiero. Per un po’, infatti, le implicazioni di quel che mi era stato chiesto mi sarebbero continuate a sfuggire. Preso dal senso del dovere e consapevole che dietro a quelle parole ci fosse l’aspettativa che imparassi al più presto l’inglese, da buono scolaro accettai la sfida senza riserve.
Mi imponevo di formulare frasi in inglese senza passare dall’italiano, relegando così quest’ultimo alle telefonate settimanali con i miei. Senza accorgermene, lasciai che questa lingua così animata e musicale si staccasse da dentro e scivolasse nell’ombra del dimenticatoio. Le emozioni erano passate in secondo piano già da tempo. Spesso mi trovai a calpestarle.
A breve la scuola divenne una bolla in cui la mente palleggiava teorie musicali, il cuore prediligeva le emozioni sicure e controllate della musica classica. In effetti stavo perfezionando un terzo linguaggio. Ma se si vuole paragonare il processo di apprendimento di un repertorio musicale a quello di un idioma straniero, bisogna considerare che la musica è un linguaggio universale direttamente collegato allo stato d’animo. Le sensazioni che suscita, spesso infinite e ancor meno definibili, sono cariche di una forza priva di semantica manifesta. Inoltre, ciascun genere musicale è carico di una cangiante sfera emotiva. Ha forse allora senso mettere a confronto l’emotività mossa da due versioni diverse della stessa composizione musicale o due composizioni diverse suscitanti emotività simili, ma meno i processi cognitivi legati alla lingua con quelli musicali.
Comunque sia, l’incanto sospeso di quel periodo si ruppe una sera in camminata quando un compagno d’università mi confidò del suo passatempo da scrittore. Fui affascinato da quell’apertura, sebbene l’entusiasmo si dissolse poi con l’insinuarsi del dubbio che il mio inglese non sarebbe mai stato all’altezza. Di scrivere in italiano, lingua in me dormiente e comunque provinciale, non se ne parlava proprio.
Presi però a divorare romanzi e poesie, finché un giorno sorse in me la certezza della possibilità. Il riconoscere la personalità nei racconti brevi di alcuni miei amici mi portò a perseguire una soluzione alternativa alla stopposa verbosità dei saggi accademici. La scrittura non doveva rimanere piatta, arida e opaca. Non doveva teorizzare o peggio ancora rispondere a richieste altrui. Ma poteva crescermi dentro e nascere libera e audace come la musica di gioventù.
Osservai che impugnando un’umile penna raccontavo, con modalità che non necessitavano della collaborazione altrui, un ventaglio di esperienze ben più ampio di quelle che ero riuscito a tradurre in suono fino a quel momento. Iniziai a tenere un diario in inglese con l’obiettivo dichiarato di snellire il mio lessico. Ma chi tiene un diario sa che scrivere, oltre a permettere di prendere atto dell’andamento altalenante dei propri contenuti, aiuta a pensare.
Quali fossero le finalità pratiche che mi ponessi a livello conscio, affiorarono in me questioni più profonde. Quella dell’onestà fu una delle prime, forse la più importante, seguita poi, come da perle di una collana che tuttora continuo a estrarre da un vecchio portagioie, dai temi della distanza e della memoria. Che fosse per scrivere le mie riflessioni quotidiane o gli eventuali racconti di finzione, riconobbi di non poter che attingere a un flusso di idee che immancabilmente, se seguito fino alla fonte, mi riportava all’Italia. Per quello che stava diventando un periodo troppo lungo avevo rinnegato le mie origini. Ora, forse troppo tardi per non pentirmene, le stavo recuperando.
Mi riavvicinai alla madrelingua prima semplicemente parlandola, nella convinzione che un parlato pronto e preciso mi avrebbe facilitato a comporre le bozze, poi anche nello scritto. Fu allora che ripresi a vagliare le mie frasi cercandole tra virgolette in rete, come quando avevo imparato l’inglese, eccetto che all’inverso. Mettere penna su carta mi fece rinascere. Sentivo che stessi ristabilendo la connessione col mio vecchio me, con la mia famiglia, col mio paese, come se finalmente potessi tornare a respirare in profondità dopo anni di dispnea.
Oggi, se ci penso, ritengo che la mia competenza nelle due lingue sia paragonabile. Probabilmente, il mio vocabolario italiano rimane più ricco, per quanto anche lì l’uso delle preposizioni sia sbiadito, ma il più delle volte mi sembra di non conoscere né l’italiano né l’inglese. Non c’è ora che passi e non mi segni parole lette o origliate o che mi schiaffeggiano in faccia. Mi sembra che mi piacciano solamente le parole che non so. Deve essere che amo imparare.
Ma una cosa è cambiata di per certo. Un tempo una lingua conoscevo e quella era. L’italiano era parte di me, come la mia voce. Oggi, non potendo comunicare in due lingue simultaneamente, scelgo. E si dice che avere opzioni sia un bene, e magari a lungo lo sarà, ma al momento rimane l’indecisione. Forse non mi conosco abbastanza bene e perciò rimbalzo da una lingua all’altra, da un lato del dizionario all’altro, da un continente all’altro. O forse è impossibile conoscersi e la lingua non è altro che un veicolo fluttuante che mi trasporta. Ma allora mi viene spontaneo chiedermi se provo emozioni diverse quando parlo in inglese invece che in italiano.
Studi mostrano che la lingua plasma il cervello, sia sotto il profilo emotivo sia sotto quello razionale, e che comunicare in una lingua straniera tende a rimuovere l’emotività dal processo decisionale. Allora può essere che quando mi perdo in un mare di parole o un deserto di idee mi si crea attorno sia perché faccia spazio ai sentimenti piuttosto che ai pensieri, perché i sentimenti sono la cosa più totale che ho e se questi non si provano in nessuna lingua, essa li aiuta a decollare e coi pensieri li aspetta al ritorno, perché la terra è visibile nella sua interezza soltanto da lontano, dallo spazio zitto e vuoto della solitudine, e da lì le imperfezioni non si notano tanto, si vede bianco e verde e blu.
Arrossisco sempre di fronte a tanto sventolare di stelle, finché di nuovo scendo.