Nel corso degli anni, avendo avuto modo di scrivere sul tema italico nella mia rubrica, abbiamo cercato di porre la nostra attenzione sullo stretto legame tra cultura e identità, in particolar modo quella italica. Un tema non semplice, perché significa definire un campo di analisi diverso da quello di cultura italiana. Certo, esiste una cultura italiana ma nel mondo glocale esiste soprattutto una cultura italica, come ben ci ha insegnato Piero Bassetti, ideatore del paradigma italico, in tante occasioni.

Ma cosa anima nuovamente questo discorso? Una novità, da noi colta positivamente: quella della nuova direzione generale presso la Farnesina denominata di diplomazia pubblica e culturale. Si tratta di un inserimento, ci riferiamo all’ambito culturale, all’interno di un ministero, che ha la sua ragione di essere nella rappresentanza di coloro che hanno cittadinanza italiana fuori d’Italia, che può essere considerato un passo che coglie l’esprit du temps. La novità, a mio avviso, cioè di chi indossa lenti italiche, è vedere un’apertura verso la percezione di un’identità culturale di natura più complessa. In altre parole il riferimento culturale pone le base di una cittadinanza nuova, pluridentitaria, che non sempre coincide con quella del passaporto. Difficile pensare di sovrapporre sempre un’identità culturale con un territorio ben preciso. Lo è sempre stato nei processi di costruzione della modernità postwestafaliana. Oggi ci appare limitante.
La cultura, invece, si muove, travalica i confini, permea e influenza se ha la forza di farlo. La cultura italiana per tantissimi indicatori come usnews, the index spectator, ceoworld, è la più influente al mondo. Cioè è una cultura che è una sorta di influencer di comportamenti, azioni, visioni del mondo.
Ma il nostro discorso parte da più lontano e ha radici profonde anche se viene portato alla ribalta nel 1994, dal politologo americano Samuel Huntington, famoso per il suo testo su Lo Scontro delle Civiltà, il quale scrive che:
“L’accresciuta importanza dell’identità culturale è in larga parte il risultato della modernizzazione socioeconomica verificatasi sia a livello individuale, dove alienazione e disorientamento creano il bisogno di più strette identità, sia a livello sociale, dove l’accresciuta forza e le maggiori potenzialità delle società non occidentali stimolano il risveglio delle identità e culture autoctone.”
E oggi, all’inizio di una guerra come quella russo-ucraina, tali parole suonano ancora più forte.
Le identità culturali ci raccontano molto di più delle identità territoriali, modificando anche il senso più profondo di cittadinanza. È per questo che assume senso e urgenza ragionare in termini di pensiero culturale e per fare questo mi si permetta di ricordare come la sua importanza.
Sappiamo bene che cultura, in latino, significa “coltivazione della terra”. Tale termine, nell’accezione di cura, è presto adottato nell’ambito religioso e sacro, il culto, ed anche in quello più “‘umano” legato ad eventi mondani. È la cultura come formazione individuale, apprendimento, conoscenza, educazione. In Grecia è la paideia, da pàis, paidòs “ragazzo”, la “coltivazione umana” come forma di armonia con il sé e con il mondo intorno.
Allo stesso modo i latini la chiamavano humanitas. Cicerone parlava di cultura animi. Per tutto il periodo medioevale, ed anche quello rinascimentale, fino alle prime interpretazione di natura illuminista, la cultura assume mutamenti di significato secondo i cambiamenti culturali del tempo. Cultura come salvezza dell’anima oppure erudizione personale, la fanno da padrone. Gli intellettuali costruiscono la loro fama e il loro ceto come gruppo di stimolo e di consulto alla vita politica e quindi assumono potere e status. Non solo fascinazione e seduzione retorica di memoria classica, ma anche potere reale. Quindi cultura alta, da non confondersi con i volgari, i rozzi, gli incolti, quelli della cultura bassa.

Il percorso della modernità, dettato dalle teorie illuministe, apre il campo a nuove interpretazioni. In particolare con Voltaire, ma non solo, il concetto di cultura si ampia per includere modus vivendi e di pensiero tipici di un popolo, che si contraddistingue in essi come differente dagli altri. Cioè la cultura diventa non tanto conoscenza, quanto forma di espressione, di attitudine e stile di vita. Si tenta, quindi, di abbattere le barriere dell’erudizione dall’ignoranza nei difficili percorsi della partecipazione democratica di massa nella sfera pubblica. La cultura in questo senso si universalizza e diviene materia di riflessione di tutto il lavoro antropologico dell’800 e del’900. Ogni cultura ha dignità, se riconoscibile non ha più senso sapere se c’è qualcuno che è più avanti o più indietro. La diversità diventa quasi sinonimo di cultura. E come un giardino dove si trovano piante diverse.
Edward Barnet Tylor, antropologo britannico a cavallo tra XIX e XX secolo sostiene che la cultura non consiste solo delle attività mentali, intellettuali ma piuttosto di qualsiasi capacità ed abitudine acquisita proprio perché si è membri di un corpo collettivo. In questo senso anche l’attività contadina, diviene attività culturale perché propone un saper fare specifico tipico, in grado di trasmettersi. E la Kultur tedesca, come espressione e modo di essere a sviluppo orizzontale, da distinguersi dalla Zivilisation, che su scala verticale impone standard culturali e gerarchici da raggiungere, escludendo ed includendo.
La differenza culturale diventa, dal XIX secolo, motivo scatenante di profonde discriminazioni oppure la massima elevazione dei principi universali e democratici, attraverso la tolleranza ed il riconoscimento reciproco. È lo stesso Tylor a dare una definizione moderna, minimo comune denominatore accettato: “Cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualunque altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società” (La cultura primitiva,1871).
La cultura nella sua polisemia, nelle sue forme processuali, perché in movimento, diventa legame sociale, lotta all’indifferenza, agisce sull’individuo e da esso viene alimentata.
La globalizzazione però modifica ad una velocità impressionante situazioni sociali, centri di poteri, significati e simboli. Il significato di cultura stessa è stressato continuamente dalle costruzioni meticce, dagli incontri più o meno forzati, dagli scambi, dalle connessioni o sconnessioni legate alle trasformazioni tecnologiche e comunicative incessanti. In questo quadro, dove nelle fisiologiche aperture culturali s’innestano patologiche chiusure conflittuali, rigurgiti nostalgici di incontaminazioni, diffidenza ed indifferenza verso coloro che possono intaccare ordini e gerarchie prestabilite; la cultura deve tornare a giocare il suo ruolo primario, anche e soprattutto a partire da una direzione generale dentro un ministero degli esteri italiano.
Ma per noi si scrive cultura italica. Perché? Perché riteniamo che essa travalichi la relazione westfaliana: un territorio, un popolo, una sovranità. In primo luogo perché essa ha radici profonde, una sedimentazione continua che vede la penisola italica protagonista di gran parte della storia dell’uomo fin dalle popolazioni pre-romane, e poi perché essa, nella sua natura universale, pregna di classicità, cristianità, umanità ed umanesimo, relazionalità, estetica, si è rivolta agli esseri umani in toto e non solo a coloro che erano presenti nella penisola dal 1861 in poi. Ma soprattutto per la sua dimensione glocale, creatasi reticolarmente, fuori dall’Italia. Uno spazio che è il globo che da dato origine a una weltanschauung, concezione del mondo, che non ha barriere, confini, dove “tutto il mondo è paese”, interpretata e narrata da grandi italici non a caso: santi, poeti e navigatori.

Il pensiero culturale italico si fa strada per tante vie: una è quella della cattedra di studi di “cultura italica e glocalizzazione” presso l’Università di Mar del Plata, Argentina. L’obiettivo è la riscossa del softpower, di un’idea che le controversie umane, nonostante l’insita natura conflittuale, possano essere gestite e risolte senza necessariamente ricorrere all’hard power, cioè alla violenza. Anche se purtroppo le vicende di questi tempi ci dicono diversamente. Ma noi vogliamo credere in un soft power italico, che nasca da una consapevolezza di una cultura diffusa e generata nel mondo, quella italica, sulla quale vogliamo puntare.
Ci sono tanti piccoli pezzi di un puzzle, che consapevolmente o meno, ci indicano che molte cose stanno cambiando e che probabilmente stanno aprendo a una “via italica” del mondo.