Per chi è un lavoratore di specifici settori è davvero dura di questi tempi. Il Covid-19 ha messo in ginocchio il turismo (penso al settore alberghiero; i noleggiatori di mezzi di trasporto, i piccoli centri culturali locali fatti proprio per i turisti); tutto il mondo degli eventi è fermo perché difficilmente si organizzano convegni o presentazioni o assembramenti in generale (a meno che non si sia un presidente negazionista) e il mondo dello spettacolo ha chiuso le porte per primo e per ultimo le riaprirà. Provate ad essere un attore, un fonico, un tecnico di palco… o un video-maker.
Ma oggi vi racconto di un progetto che in realtà deve fare i conti non tanto con il virus ma con un altro problema: il budget.

Giuseppe De Lauri è un giornalista freelance, collaboratore de La Voce di New York, con un’idea bella che pronta in mano, un corto che tratta il tema dell’immigrazione ma che fa anche una riflessione sul famoso concetto del “sogno americano”. Ma per produrre si sa, servono fondi, soprattutto se si vuole dare dignità e valore professionale ad un prodotto: quando un lavoro dipende dalla collaborazione di più persone è assolutamente necessario trattarle con rispetto ed il lavoro si paga. E per quanto si tenti di limitare le spese, si arriva sempre a necessitare di un certo budget. Il difficile a questo punto è trovare non solo chi disponga della somma ma anche dell’interesse e della fiducia necessari per sovvenzionare un progetto.
Un enorme bacino di possibilità viene dalle campagne di crowdfunding che permettono di sottoporre un’idea ad un vasto numero di persone che possono partecipare con una donazione alla realizzazione del progetto presentato ed è proprio quello che ha fatto Giuseppe: si è affidato al crowdfunding per tentare di far vedere la luce al suo Hey Boy.
Giuseppe è nato in Italia, a Parolise, un piccolo paesino dell’Irpinia ma, come tanti giovani, ha deciso ad un certo punto di partire per raccogliere esperienze più grandi di quelle che la sola Italia poteva offrire. É passato per Roma prima di andare a Parigi dove ha studiato prima Film Studies e Letteratura e poi Storia Contemporanea. Poi si è spostato a Berlino dove ha lavorato nell’e-commerce e nel 2017 è arrivato a New York dove ha conseguito un master in New Digital Media presso la NYU. Da allora ha lavorato nella pubblicità e in quello che si chiama Content Creation, ovvero contenuti multimediali per più piattaforme. Ma sin dal liceo erano le arti visive e letterarie che lo appassionavano di più. Scriveva in gran segreto convinto di non essere capace, anche perché i voti scolastici sembravano dire che non fosse poi così bravo, con gran pena per mamma e papà. E proprio una prima esperienza liceale (un corto a cui collaborerà nella scrittura e nella recitazione) lo porterà, negli anni dell’università, a circondarsi di persone che amano il cinema e l’arte in generale: attori, registi, video maker, cantanti, scrittori e teatranti, con alcuni dei quali ancora collabora.
Oggi a New York si occupa di politica, comunicazione, tecnologia e dei loro innesti mutuali, convinto che al giorno d’oggi c’è poco che possa prescindere da questi tre fattori e nel cassetto, pronto per essere aperto, c’è Hey Boy del quale gli ho chiesto di raccontarmi.
Di cosa parla il tuo corto?
“Il corto è un coming on age drama. Un 14enne viene spedito dai suoi genitori presso uno zio negli USA con la speranza di una vita migliore. Ma la ricerca del sogno americano si frantuma in un incubo. Il ragazzo è bloccato tra l’impossibilità di tornare indietro e gli ostacoli nel procedere. Alla fine troverà la sua via di fuga scegliendo una terza possibilità, forse quella a lui più congeniale”.
Come nasce l’idea del corto?
“L’idea del corto nasce da una storia vera. Ero a cena in un ristorante mezzo vuoto, anzi per la verità c’ero solo io. Il proprietario mi offre del vino e iniziamo a chiacchierare. Mi parla dei suoi primi anni da sguattero nel locale dello zio, quando il suo paese di origine era sull’orlo di una guerra civile. La storia mi ha colpito perché, nonostante le nostre situazioni fossero differenti, ho condiviso in parte le sue peripezie. Chi è immigrato di recente in questo Paese sa bene cosa si prova nel sentirsi costantemente osteggiato, anche solo burocraticamente, da una politica e una società che non ti vuole”.
Quanto e cosa hai in comune con il protagonista? Hai avuto difficoltà in quanto immigrato o solo come individuo che deve trovare il suo posto in questa società?
“Effettivamente mi sono ritrovato spesso nei panni del protagonista. È vero, ci sono immigrati di serie A e di serie B in questo paese. Io sono sicuramente fortunato perché ho alle spalle una famiglia ed un paese (l’Italia) che mi hanno permesso di studiare e crescere in salute. Ma parafrasando Woody Allen posso affermare che se ci sono immigrati che se la passano decisamente male, neanche noi – più fortunati – non stiamo molto bene. Una serie di subdole procedure burocratiche, ma anche legali, non permettono una vera e propria integrazione. Sono convinto che se Einstein volesse immigrare oggi negli USA gli chiederebbero di lavorare a vita nell’ufficio brevetti invece che in un laboratorio solo perché sul suo visto c’è scritto “Impiegato Ufficio Registrazioni e Affini”.
Quindi questo “sogno americano” esiste davvero o è un modo per vendere un’illusione?
“Dicono che il “sogno americano” sia esistito un tempo ma sarebbe un pò troppo generalista chiuderla così. Conosco persone che sono immigrate negli USA e ne hanno tratto il meglio che potevano. Ecco io non parlerei più di “sogno”. Infatti non basta più volere fortemente una cosa per averla, non basta più essere preparati, essere i migliori (se questo fosse mai bastato nella storia dell’uomo). Oggi conta davvero molto il caso, anzi il caos. Se da una nube caotica si riesce a inanellare una serie irripetibile di eventi, e quindi magari si incontra la persona giusta o il tuo CV viene pescato tra i tanti, allora il sogno per te ha inizio. Molti la chiamano semplicemente fortuna. Ma il mio punto è: si può dare tutta questa responsabilità alla fortuna?”

Infatti, è giusto chiamare ambizioni, aspirazioni o addirittura i diritti (quelli ad una vita decente e all’accesso a possibilità eque) “sogni”?
“C’e’ una grande distinzione, purtroppo o per fortuna, tra ciò che una persona vuol fare e ciò che una persona può fare. Il sogno per definizione è irraggiungibile. Lo vediamo in lontananza, ma svanisce appena arriviamo nel concreto. Ma allora a cosa serve sognare? Serve a farci camminare, come diceva Galeano dell’Utopia. Mettere sullo stesso piano ambizioni, sogni e diritti corrisponderebbe a vivere in una utopia. La nostra generazione, quella disillusa, anzi quella nichilista, ha imparato a proprie spese che un mondo del genere non esiste. Ma è da ammirare chi si adopera per raggiungerlo”.
Nel corto il tuo Boy ce la fa? E chi invece non ce la fa? Questo paese, in quanto capitalista, è fondato sull’idea di competizione, successo e fallimento e sull’apparire il più possibile vincente: chi non ce la fa è per forza un perdente responsabile del suo fallimento? È sempre e per forza sottinteso “dovevi fare di più; non ti sei impegnato abbastanza”?
“Il tema centrale della storia è proprio questo. Si è sempre responsabili del proprio fallimento? E perché sentirsi un fallito se non si raggiungono gli obbiettivi? Io credo che tutti abbiano provato almeno una volta nella vita la sensazione viscida che ti si attacca addosso del sentirsi un “non abbastanza”. La società globale è fondata sulla competizione, non solo quella capitalista Americana. Il mondo ci vuole competitivi. “It’s a doggy-dog world”, come dice un personaggio nella mia storia. Infatti basta guardare il film di Bong Joon-ho Parasite, che parla della suburbia coreana, per capire che siamo tutti figli dello stesso mantra. Da cosa stanno scappando i membri della famiglia Kim se non dal proprio intimo fallimento sociale e familiare? In questo corto ho voluto evidenziare che nonostante il protagonista abbia tutte le carte per farcela, lui resta ad osservare attonito alla vanificazione dei suoi sforzi per cause terze. Il finale è aperto, non sappiamo cosa succede, non sappiamo se il ragazzo ha spiccato il volo o si è umanamente schiantato”.

Per il tuo progetto è in corso una campagna di crowdfunding: quanto è difficile essere un filmmaker? Come si trovano in genere i fondi per produrre?

“L’accesso ai fondi è sempre stato il primo problema per i filmmaker. Se guardiamo bene, nel tempo i fondi a disposizione sono aumentati così come le piattaforme di distribuzione. Eppure non bastano. Come mai? Io credo che sempre più persone cerchino la propria espressione nei film o nell’arte in generale, magari a causa dell’attuale sonnambulismo mediatico, quindi c’è ancora più competizione. Abbiamo lanciato la campagna di crowdfunding con un piano marketing alle spalle, con una lista di persone a cui chiedere, con l’appoggio di amici e familiari. Questo perché le campagne crowdfunding sono progetti fluidi, con una certa difficoltà nel definirne forme e obbiettivi. Abbiamo chiesto in giro a chi aveva già esperienza, abbiamo seguito workshop, io ci ho perso anche qualche chilo, ad essere onesto. Per fortuna la mia co-producer Giulia Rocca è molto ben organizzata e ha sopperito con la sua calma alla mia ansia”.
Come funziona una campagna crowdfunding? Cosa succede se alla fine del termine non si è raggiunta la cifra necessaria?
“Ci sono varie piattaforme e ognuna ha la propria politica. Questa di Seed&Spark ha una “green light” se raggiungiamo l’80%. Per molte altre bisogna raggiungere l’intero obiettivo. Se non lo si raggiunge ci si dice che è stato bello, che ci si è provato, poi si prova vergogna e rabbia per un po’ di giorni e finisce lì. Proprio così, per molti non raggiungere l’obbiettivo significa buttare all’aria il lavoro di mesi, purtroppo”.

Le riprese sono previste per fine novembre, in pieno Covid! Il mondo dello spettacolo (e quello degli eventi in genere) sono tra i più colpiti dalla pandemia: quanto è difficile lavorare nella film industry in questo momento? È possibile riuscirci? Come si svolgeranno le riprese?
“In molti dicono che è da pazzi girare in pieno Covid. Forse non hanno tutti i torti ma credo anche che ci possano essere dei benefici: le location costano di meno, così come l’equipment in generale. La gente dello spettacolo ha tanta voglia di lavorare e la passione è palpabile. Bisogna rispettare i protocolli anti Covid, quindi serve un’organizzazione marziale che ho affidato alle mie co-producer Giulia e Cheryl Wang. Ci saranno dei test fatti 10 e 5 giorni prima delle riprese. Si misurerà la temperatura ad ogni ingresso sul set e si manterrà la distanza sociale. Per far questo dovremo girare a compartimenti stagni, nel senso che sul set non ci saranno mai più di 5 persone. Ad esempio, per preparare una scena prima entreremo io e la production designer per fare il set up. Poi esce la production designer ed entra il team della fotografia. Si preparano le luci, si posiziona la camera, il carrello ecc. Escono elettricisti e macchinisti e rimaniamo io con la mia talentuosa direttrice della fotografia Emiljia Gasic e il suo assistente. Poi esce l’assistente ed entrano gli attori e la mia assistente. Si gira la scena. Escono gli attori ed entrano le producers per controllare il girato. Insomma, io resto sempre sul set”.
Auguro a Giuseppe di rischiare più degli altri dovendo stare sempre sul set: vorrebbe dire che è riuscito a raggiungere il budget necessario per le riprese del suo Hey Boy.
Se siete curiosi, avete ancora qualche giorno per andare sulla pagina dove troverete un bellissimo storyboard di presentazione del corto e se vi convincerà abbastanza potrete sostenere il progetto con una libera donazione. Se invece la partecipazione economica non è nelle vostre possibilità ma volete comunque sostenere il progetto, ecco cosa potete fare:
- “Follow” la campagna su Seed & Spark! Una volta raggiunti i 250 “follower”, indipendentemente da quante persone si impegnano, inizieranno a sbloccare sconti per i creator di questo progetto e di quelli futuri.
- Segui il progetto su Instagram (@heyboyshortfilm) per vedere tutti i contenuti e gli aggiornamenti.
- Condividi quanto segue sui tuoi social media:
Se siete curiosi, avete ancora qualche giorno per andare sulla pagina dove troverete un bellissimo storyboard creato da Angelo Reppucci, insieme alla presentazione del corto e se vi convincerà abbastanza potrete sostenere il progetto con una libera donazione.
In bocca al lupo Giuseppe.