Abbiamo incontrato Daniele Odasso una mattina di maggio, e poi ancora di recente a Union Square in mezzo alle zucche delle bancarelle autunnali, e ci ha raccontato cosa l’ha portato fino a New York.
Qual è la tua storia?
“Mi chiamo Daniele Odasso, sono nato e cresciuto a Torino e fin da piccolo ho sempre espresso e coltivato l’amore per il canto e la musica. Devo moltissimo ai miei genitori che, già durante l’infanzia, non solo mi hanno sempre sostenuto ma hanno esposto sia me che mio fratello (oggi chitarrista professionista) all’ascolto di generi diversi, dalla musica classica alle melodie eterne dei Beatles, alle voci straordinarie del soul e del rhythm and blues e proprio questi primi ricordi hanno lasciato in me una traccia indelebile. Non dimenticherò mai l’emozione di scoprire il canto pieno di fede e passione di Aretha Franklin, Ray Charles, Otis Redding e Sam Cooke. Pur non avendo ricevuto un’educazione religiosa (non sono battezzato e miei genitori mi hanno lasciato completa libertà di coltivare il mio percorso), che magari è caratteristica frequente di molte persone nate in Italia, ho sempre sentito un legame profondo tra il significato intimo e sacro del canto e un’idea più grande di appartenenza alla vita e alla natura, che per me sostanzia e nutre quella che considero la mia fede. Da qui l’amore per il gospel e il primo concerto di Spirituals all’Auditorium del Conservatorio di Torino, nello stesso periodo in cui a otto anni ho cantato per la prima volta in una recita delle elementari “Nobody knows the trouble I’ve seen”. Due anni dopo, il mio insegnante di pianoforte mi ha chiesto di interpretare a cappella a teatro “I will always love you”, ovviamente ispirato dalla voce angelica di Whitney Houston, anche se io, per il ruolo che interpretavo, ero vestito da cantore greco con la tunica e la lira in braccio… un momento a cui ripenso con tenerezza perché, nonostante fossi timido, mi sentivo contemporaneamente libero, pronto a seguire il mio destino e felice di cantare.
Ho studiato canto privatamente dai dodici anni, con un’insegnante che mi ha avvicinato al jazz e che ha cercato di conservare in me la tessitura della voce bianca ma, come capita poi naturalmente, la muta della voce mi ha collocato poco dopo nel limbo dell’adolescenza. Per questo motivo mi sono rifugiato, forse come reazione, nell’impegno instancabile degli studi al liceo classico. In quel periodo la musica è rimasta una passione segreta e placata perché la mia voce doveva stabilizzarsi e ho aspettato di diplomarmi per tornare a studiare canto”.
Cosa ti ha portato negli USA?
“Il sogno di avvicinarmi agli Stati Uniti è stato sicuramente incoraggiato dagli insegnanti di Torino che mi hanno seguito, Marco Testa, Giovanna Gattuso, Dante Muro ed Elisabetta Prodon, quest’ultima in particolare mi incoraggiato a partecipare alle clinics del Berklee College of Music a Perugia, durante il festival di Umbria Jazz del 2006 e 2007. In questa occasione ho avuto il privilegio di studiare con due insegnanti che hanno completamente informato e determinato il mio futuro in America, Donna McElroy e Dennis Montgomery III. Due mentori assoluti per me. Per due anni, al termine del festival, ho cantato per scelta di Dennis come solista nel concerto gospel finale e questo mi ha spinto a decidere di frequentare un corso di 5 settimane presso il college a Boston nell’estate del 2008, al termine del quale, con il sostegno di Donna McElroy, ho vinto una scholarship per frequentare la scuola a tempo pieno. Quando ho ricevuto quella notizia ho pianto per ore, mi sembrava un miracolo e l’inizio vero di un sogno. Anche in quella circostanza ho cantato come solista nel concerto gospel del City Music Choir, un’emozione pazzesca dato che ero circondato da voci di giovani talentuosissimi che mi hanno abbracciato e accolto e che sono amici da più di dieci anni. Un altro incontro davvero significativo e che qua in America forse definirebbero un esempio di “serendipity”, è stato quello con Michael Baker, direttore musicale di Whitney Houston per tredici anni, capitato per caso al mare a Viareggio, da dove ha origine la mia famiglia di parte materna, nell’estate precedente ai corsi a Umbria Jazz. Michael vive in Toscana da diversi anni ormai, nonostante la sua carriera straordinaria lo abbia portato in giro per il mondo, e incontrarlo nel luogo dove ho trascorso tutte le vacanze di una vita, è stato davvero un momento di ispirazione profonda per me, anche ricordando la sua collaborazione con un’altra artista e voce italiana che amo da sempre, Giorgia. In quell’incontro ho cercato una guida e ho potuto vederlo lavorare in studio a Lucca, dove abbiamo registrato alcune demo, un’esperienza che non dimenticherò mai”.
Cosa è successo a Boston?
“Dall’inizio effettivo dei miei studi a Berklee, nell’estate del 2009, la mia vita intera è cambiata, ho conosciuto musicisti da tutto il mondo e amici che sono diventati come una famiglia, che rimane tale anche dopo il mio trasferimento a New York all’inizio del 2017. La sensazione di vivere un sogno, condiviso da una comunità di giovani, molti dei quali cantautori e compositori, determinati a dare un contributo all’industria musicale in continuo cambiamento, a Boston è sempre stata palpabile: ho avuto la possibilità di partecipare a uno spettacolo-musical sulla vita di Michael Jackson, un artista che ha completamente influenzato la mia visione della musica, avendo come mentore durante le prove Michael Bearden, ultimo direttore musicale e tastierista di Michael per quello che sarebbe stato il tour di This is it. Un’esperienza incredibile, di cui ricordo lucidamente tra tanti momenti le prove per “Man in the mirror”, quando il sig. Bearden ci ha incoraggiato a concentrarci sul significato spirituale nell’interpretazione di quel pezzo. Dopo quella indicazione, guardando me e gli altri tre ragazzi scelti per chiudere lo spettacolo, ha detto “now I believe you” e solo così ci siamo sentiti pronti a salire sul palco.
Un altro ricordo importantissimo della mia esperienza a Boston è stata la partecipazione al concerto di tributo a Whitney Houston nel 2013, diretto dal suo tastierista Jetro da Silva, un momento di grazia in cui ho sentito fortemente la responsabilità di onorare una voce che mi ha ispirato tutta la vita”.
In cosa consiste il tuo lavoro?
“Dopo la laurea nel 2014, ho iniziato a lavorare al mio disco di debutto, “Prelude to your love” che contiene nove pezzi di cui ho composto le melodie e scritto testi e arrangiamenti vocali e una cover tributo di un amico di Torino, mio “fratello” in musica. Nella mescolanza di pop, r’n’b, jazz e gospel l’album custodisce l’essenza di tutto il mio percorso degli ultimi anni. In esso hanno lavorato grandissimi musicisti e “compagni di viaggio” e sono stato seguito per la durata dell’intera registrazione dalla mia carissima amica e straordinaria cantautrice Monica Cialona (in arte Dafney) che ha cantato con me nel disco ed è stata un angelo custode di pazienza e generosità. Da Torino, a guidare il processo intero del nostro lavoro a Boston, in qualità di produttrice e direttore artistico, un’altra musicista eccezionale, Cristina Valente. Ho avuto inoltre l’onore di collaborare per il disco con il compositore Omar Thomas (arrangiatore nel 2015 del disco vincitore del Grammy “Beautiful life” di Dianne Reeves), che ha realizzato gli arrangiamenti di tre canzoni tra cui un brano cantato in duetto con Donna McElroy, per me diventata una vera e propria “madre” musicale e vocalist incredibile. Ricordo chiaramente l’emozione di vedere i brani prendere vita alle prove con Omar che, da compositore per big band, ha scritto in due dei tre brani del disco, anche parti per un trio di fiati, dando indicazioni agli otto musicisti della band intera con il piglio maestoso di un direttore d’orchestra. E poi assistere alla sessione di registrazione di “A place in a new world” per cui Donna ha inciso la sua parte solista e i cori con una potenza e creatività vocale da rimanere a bocca aperta. Infine il direttore del coro gospel di Umbria Jazz, Dennis Montgomery III, che io considero un “re della voce” ha anche cantato i cori in due brani del disco. Un dono immenso per me aver avvicinato questi mentori alle mie canzoni”.
Come ti prendi cura del tuo strumento più personale, la tua voce?
“Dal 2016, nell’anno precedente al mio ritorno negli Stati Uniti dopo la laurea, mentre attendevo di ottenere il visto artistico e contemporaneamente il completamento del mix e master del mio disco, ho iniziato a frequentare l’istituto Lichtenberg che da 35 anni fa ricerca sulla voce e la fisiologia vocale e ha sede a Fischbachtal, in Germania. Ispirato a cercare una chiave nuova di lettura della voce dalla mia omeopata e foniatra di Torino, la dott.ssa Gonella, a cavallo tra i ritorni in Italia e i mesi in America, ho iniziato in Germania una formazione nuova, un percorso di riscoperta dello strumento voce che si fonda su un’indagine basata su stimolazioni acustiche, propiocettive e sensoriali che portano il suono ad interagire con il nostro sistema nervoso parasimpatico. Questo metodo richiede una formazione continua e ad Agosto del 2019 ho completato in tre anni la prima parte del percorso ma mi appresto a proseguirlo nella parte pedagogica recandomi all’istituto per due masterclass intensive all’anno”.
Cosa ti ha portato a New York?
“Dopo aver ottenuto il visto artistico, a ridosso dei primi concerti di presentazione del mio disco in Italia, alla fine del 2016, nonostante i miei piani fossero di tornare a Boston, che ho sempre considerato “casa”, ho deciso nel giro di poche settimane di provare l’esperienza di vivere a New York per cinque mesi. Questo periodo di prova sarebbe servito a rendermi conto della possibilità concreta di farcela, nella consapevolezza delle opportunità inesauribili di una città che mi ha sempre affascinato, incuriosito ma anche intimorito per la sua grandezza ed energia inarrestabile. Nel giro di pochi mesi ho riallacciato i contatti con tutti i musicisti che conoscevo e incontrato molti altri che accompagnandomi mi hanno regalato l’emozione di presentare per la prima volta negli Stati Uniti le mie canzoni. Ho suonato nei locali che sono forse un passaggio obbligato nella gavetta dei live: debuttare ad Harlem mi ha visto tremare ma è stato un momento di grande gioia portare il mio disco prima da Shrine con la band completa e la settimana successiva da Silvana in forma acustica con solo piano, voce e cori. L’emozione si è pian piano fusa con la percezione che da piccoli passi il terreno in cui muoversi potesse diventare più riconoscibile e gestibile. Ciononostante una parte di me, emotivamente e mentalmente, forse ancora tuttora conserva una sorta di “distanza di sicurezza”, come se affermare e rendermi conto che davvero sto vivendo a New York mi potesse creare un senso di sopraffazione. Certamente i concerti hanno fatto da guida attraverso queste paure e forse non è una coincidenza che la canzone che considero più importante nel mio disco si intitoli proprio “Free from fear”: un pezzo d’amore che condensa simbolicamente l’aspirazione proprio a liberarsi da tutto quello che può limitare il nostro sentire.
Dopo pochi mesi e i primi cinque concerti, tra cui uno per il festival Make Music NY, in cui in tutta la città suona nel solstizio d’estate (io sono andato a suonare in un palco all’aperto nel Bronx), ho trovato lavoro come insegnante di canto presso lo store di strumenti Guitar center e qua ancora una volta la mia vita è cambiata. Ho avuto la fortuna di incontrare persone che cercavano nella loro voce una chiave di espressione completa e venivano da percorsi di vita, nazionalità e professioni diversissime. Nel mio approccio ho sempre cercato di confrontarmi con gli studenti rendendoli partecipi del mio percorso di formazione ininterrotta dalla Berklee al metodo Lichtenberg e questo mi ha regalato l’opportunità di vederli crescere mentre acquisivo più strumenti anche io, didatticamente e creativamente e la mia voce, che prima voleva solo esprimere la parte più profonda di me, è diventata davvero una voce condivisa, un sentimento di compartecipazione, forse la sorgente più sana a cui attingere, anche nell’idea e sorpresa di vedermi rimanere più a lungo del previsto a New York. Il metodo Lichtenberg comporta davvero nella sua pedagogia un’indagine e valorizzazione di tutti gli aspetti soggettivi, personali e mutevoli della voce come strumento di conoscenza del nostro corpo e di comunicazione e di espressione. Lo studio del canto è diffuso comunemente nell’immagine tradizionale di vocalizzi ripetuti nella costruzione e memorizzazione di una tecnica. In questo percorso invece, partendo dai parametri del suono (vibrato, intonazione, vocale e formanti), vengono dati stimoli acustici e sensoriali che invitano a un ascolto nuovo, attentissimo e dedicato e creano un linguaggio in evoluzione continua, una sorta di osmosi tra le sensazioni descritte da chi canta e da chi ascolta. Questa idea per me più ‘democratica’, di condivisione del suono, crea un senso di collaborazione e reciprocità dialogica e la musica si trasforma in un momento di vera celebrazione della libertà espressiva. È un percorso graduale e inizialmente ero convinto che chiunque venisse a fare lezione di canto a New York arrivasse portando un pezzettino di frenesia cittadina e invece ho scoperto con sorpresa la gioia di incontrare a metà strada gli altri, accompagnandoli per un’ora ad ascoltare e legittimare anche il loro bisogno di calma e di lentezza e farlo grazie alle canzoni è bellissimo. Devo all’insegnamento del canto a New York una linfa nuova di ispirazione a comporre i brani del mio prossimo disco, che ha già un titolo e una visione e che dovrebbe debuttare in primavera”.
Come riesci a trasmettere la tua arte?
“Ricordo un ragazzo che, iniziando la sua prima lezione di canto, si considerava troppo timido per lasciare uscire la voce completamente. Dopo poco decise di leggermi una sua poesia. Ne rimasi così colpito dal decidere di chiedergli di provare un esperimento con ciò che aveva scritto. Mi misi al piano a cercare intuitivamente alcuni accordi e su quella base il ragazzo trovò il coraggio, anche nella timidezza, di trasformare quelle parole e appoggiarle delicatamente, in quella che io considero un’“intenzione e direzione melodica” e da lì a pochi minuti dopo la poesia era diventata la strofa di una canzone… che bello vedere il sorriso sul suo volto!
Dopo un anno di insegnamento a New York, trovandomi a viaggiare, ho cominciato, grazie alla proposta di un amico trasferitosi da poco nella Grande Mela, anche a insegnare in una scuola privata a Boston. Questo viaggio settimanale di ritorno temporaneo nel “nido” a molti sembra una fatica eccessiva ma a Boston avevo lasciato davvero un pezzo di me e poterci passare anche solo due giorni alla settimana mi ha dato nuove energie e idee per affrontare la vita di New York”.
In cosa ti hanno aiutato il tuo essere torinese e la tua famiglia e la tua cultura di provenienza nell’avere successo qui?
“Credo che tutta la mia vita si basi sul delicato equilibrio tra l’idea di un passato fondante e fondamentale e la propensione verso il cambiamento e il futuro. In qualche modo è proprio la mia famiglia ad avermi dato gli strumenti per credere che questo fosse possibile. Per tanti anni alcuni amici di Torino hanno visto nella mia partenza una cesura con il passato, un abbandono e un saluto e invece la mia famiglia mi ha sempre ispirato a custodire intimamente e quotidianamente il senso di appartenenza alla mia città di origine, il fulcro che contiene tutta la mia storia”.
Ti manca qualcosa della tua città?
“Certamente della mia città mi mancano moltissime cose ma più di tutto la mia famiglia e i miei amici nella loro presenza e vicinanza, il verde della collina e l’apertura della campagna circostante e le periferie e le zone industriali che quando torno a Torino, almeno due volte all’anno, attraverso in macchina con la musica ad avvolgere le notti… e l’architettura barocca che per me rende la mia città un piccolo gioiello da riscoprire ancora.
Del mio essere torinese forse il senso di orgoglio mi ha rafforzato nel trovare il mio spazio a New York in un’identità fatta di più aspetti. Devo alla resilienza e all’amore incondizionato della mia famiglia i valori e il senso di protezione più grande. Un altro aspetto che ho sempre sentito forte in quanto italiano in America è il legame con la parte umanistica dei miei studi, che forse negli anni del liceo sembravano lontani dalla fascinazione per la musica in inglese della cultura pop”.
Come coniughi quindi le tue due “anime”?
“Solo recentemente, grazie ad un’allieva che mi ha invitato a vedere una performance di “Antigone in Ferguson”, in cui lei cantava nel coro, ho visto un collegamento tra i testi che studiavo al liceo e la musica che ascoltavo e ho provato la commozione profonda di vedere riuniti tutti gli aspetti del mio bisogno di appartenenza a una comunità più grande. Vedere in una chiesa di Dumbo, a Brooklyn, una rappresentazione di una tragedia di Sofocle, infusa e mescolata con brani gospel composti in memoria di Michael Brown, di un arrangiatore e compositore di St. Louis, seguita da un dialogo aperto tra cantanti, attori, assistenti sociali e membri del NYPD e del pubblico, è stato uno dei momenti più potenti in assoluto di tutti gli anni della mia vita negli Stati Uniti. Ho visto ancora una volta come la musica può davvero essere strumento catartico e di sublimazione che può aprire a un dialogo immediato e necessario anche se complesso”.