Esistono vari tipi di dolore, ciascuno con un differente grado di intensità, che subiamo involontariamente o ci infliggiamo con consapevolezza. Esiste il dolore fisico causato da un trauma inaspettato e imprevedibile, di cui il nostro cervello non riesce a darci notizia in tempo da evitarlo. Esiste il dolore cronico provocato da una malattia che coinvolge una o più parti del nostro corpo, interne o esterne, quel dolore che non ti abbandona quasi mai e rovina il sonno e la veglia. La vita. Esiste il dolore lacerante che arriva dritto al cuore, quello causato da azioni o parole che feriscono al livello degli abissi dell’animo; quel dolore che quasi mai sappiamo gestire razionalmente e che, anzi, superiamo soltanto gettandoci a capofitto nella ferita aperta e suturando la beanza in tutti i suoi punti.
Poi esiste il dolore di riflesso. Il dolore di cui siamo testimoni, quello che aumenta in proporzione al grado di empatia di cui siamo dotati (o a cui siamo condannati). Quello che fa versare lacrime alla scena straziante di un film o spegnere un sorriso di fronte a una persona sofferente. Di questo dolore sono custodi coloro che lavorano negli ospedali, per esempio. Quale altro luogo contiene tra le sue mura più dolore di un ospedale?
Sono italiana, vivo e lavoro a New York dal 2014 e ospito quest’ultimo tipo di dolore quotidianamente. Per scelta. Da quattro anni faccio l’interprete medico negli ospedali più prestigiosi di Manhattan: New York University Langone, Memorial Sloan Kettering, Mount Sinai, Presbyterian Cornell, tra i principali. Dopo anni di libera professione precaria in Italia e lotta contro le tariffe al ribasso, ho deciso di inseguire il sogno americano. Non immaginavo esistesse l’interpretariato medico, con tanto di associazioni che offrono corsi di formazione per l’apprendimento della terminologia, ma soprattutto della deontologia professionale e delle norme HIPAA – il protocollo sulla riservatezza delle informazioni sanitarie, fondamentale per comportarsi adeguatamente nel contesto ospedaliero. Data la mia passione per la medicina, oltre che per le lingue, non ho esitato a iscrivermi al corso.
I sei o sette interpreti italiani presenti in agenzia a rotazione prestano servizio nelle strutture ospedaliere di Manhattan, ma anche Brooklyn, Queens, Bronx. In alcune di queste strutture la presenza dell’interprete è obbligatoria, e in mancanza della persona fisica, si fa affidamento a un macchinario dall’aspetto di robot di nome Marti, che mette in comunicazione telefonica (audio, ma anche video) un interprete per qualsiasi lingua richiesta.
Essere testimoni della drammaticità di queste situazioni e dell’istinto di sopravvivenza delle persone, eleva ad un livello di umanità e partecipazione altissimi. Ci si allena ad essere migliori, a non lamentarsi continuamente di problemucci quotidiani…
Sono cresciuta in una famiglia di medici. Ritrovarsi in tv la domenica mattina la registrazione di un intervento chirurgico orale che mio padre stava studiando, o sentire le storie delle pazienti anoressiche o bulimiche di mia sorella, ha sicuramente contribuito a costruire una curiosità iniziale e successivamente l’interesse verso tutto ciò che riguardava l’anatomia e la patologia, i disturbi psichiatrici, e in seguito la stima per le figure mediche. Inoltre, il sangue, i fili di sutura, le ferite, avevano smesso di impressionarmi. Confesso che durante i miei studi linguistici, mi introducevo clandestinamente nelle aule dell’università di medicina di Varese per seguire le lezioni di biologia e anatomia patologica e costruire i miei glossari in lingua inglese.
Spesso mi viene chiesto quale sia la difficoltà linguistica principale in un contesto medico. E rispondo sempre: gli acronimi. In America non si ama esplicitare un nome scientifico, quindi una risonanza magnetica è semplicemente una MRI (Magnetic Resonance Imaging), la iniezione endovenosa un IV (Intravenous), la pressione sanguigna BP (Blood Pressure), la malattia polmonare ostruttiva cronica COPD (Chronic obstructive pulmonary disease), eccetera. Anche i nomi dei farmaci non sono esattamente intuitivi per una mente vergine e, ancor più, straniera e occorre tempo per sentirne il più possibile e per memorizzarli.
Ciò che mi colpì da subito fu l’atteggiamenti dei medici nei confronti dell’interprete. Mi sono sentita da subito una figura chiave, una a cui viene riservato un posto in prima fila e a cui essere estremamente grati per il tempo speso a facilitare, anzi, dare vita, a una conversazione così delicata, complicata e spesso emotivamente impegnativa. Ci avevano insegnato a non dare troppo spazio alle conversazioni personali, a non mostrarci amichevoli più del necessario. Insomma, a essere rigorosi. E così ho fatto. Eppure, in alcuni casi, dover tradurre a un omone siciliano di 50 anni, con la famiglia presente, che il suo tumore al pancreas gli dava al massimo un anno di vita, o ai genitori di una ragazzina di 16 anni intubata in terapia intensiva pediatrica che la sua vita era a rischio, ha messo a dura prova il mio aplomb. Ma sentire risposte quali: “Beh, 1 anno è meglio di 6 mesi” o vedere pazienti così giovani lottare con una forza d’animo straordinaria e l’amore dei genitori è quasi disarmante. Essere testimoni della drammaticità di queste situazioni e dell’istinto di sopravvivenza delle persone, eleva ad un livello di umanità e partecipazione altissimi. Ci si allena ad essere migliori, a non lamentarsi continuamente di problemucci quotidiani, a comprendere meglio gli stati d’animo di altri e di sé stessi e a dare valore alle cose importanti. Non ho mai cercato di smettere. Anzi, sono spaventata all’idea, perché non allenandoci ad essere migliori, si finisce per essere preda della superficialità di questa società, ci si appiattisce. E non voglio che accada. La realizzazione di me stessa è avvenuta in quelle corsie, tra quei letti.

I pazienti che si recano a New York per curarsi vengono da tutta Italia, da nord a sud. Campania, Lombardia, Lazio per lo più. Quelli interessati a una consulenza o a una visita specialistica, essendo loro quasi sempre sprovvisti di assicurazione medica, hanno generalmente una disponibilità economica maggiore, quindi inquadrabili in un ceto medio-alto. Nel caso di pazienti, in genere giovani minorenni, affetti da malattie rare che non sarebbero in grado di ricevere un’assistenza di pari livello (sia per diverso protocollo di cura, che strutture attrezzate o macchinari disponibili) non c’è distinzione di ceto. In seguito a richiesta all’ASL di residenza e all’ottenimento del SSN (Social Security Number, codice di identificazione fiscale), si possono ottenere i rimborsi di cure, interventi, ma anche viaggio, alloggio per il paziente e la famiglia. Non tutto però viene sovvenzionato o non interamente. Nei casi più gravi, i genitori creano vere e proprie associazioni di raccolta fondi per aiutare a sostenere le spese mediche ingentissime che devono affrontare.
I pazienti, invece, che emigrarono negli anni ‘60, ‘70, e che ancora non si sentono in grado di affrontare una conversazione con inglese tecnico, sono quasi esclusivamente del sud Italia (nell’ordine: Sicilia, Campania, Puglia, Calabria, Lazio e in rari casi le regioni del nord) e hanno radici decisamente umili. In queste famiglie quasi sempre il padre lavorava come operaio edile, talvolta barbiere o pizzaiolo, mentre la moglie si occupava dei figli o lavorava come sarta o operaia. Spesso raggiungevano un cugino o uno zio già residente in America e con grandissimi sacrifici iniziavano una nuova vita. Un paziente una volta mi disse: Linda, ricordati, per gli italiani venuti in America, il dollaro è rigato di sangue”. Una vita dedicata al lavoro e alla famiglia. E ora, giunti alla pensione, vedono i loro risparmi e pensioni riversati nelle tasche delle assicurazioni mediche statunitensi. Quasi nessuno di loro, però, tornerebbe in Italia. E la loro curiosità più grande è sapere se ci tornerei io.
Il ruolo di interprete medico spesso non è quello di “dare sentenze”, ma di riceverle insieme al paziente. Esistono linee guida anche su dove e come l’interprete si debba posizionare durante la conversazione, e cioè di fianco al paziente un passo indietro
Quando rifletto su come questo lavoro mi abbia cambiata, trovo che se da un lato mi ha fatto sentire più consapevole di tutto ciò che riguarda la salute del nostro corpo, dall’altro mi ha reso più fatalista, come se tutto in fondo fosse segnato e io porti una sorta di corazza che mi impedisce di sentire il bisogno di protezione.
New York è una città estremamente intensa, colma di stimoli ad ogni angolo, di lusso da un lato e disperazione dall’altro, persino quando si è fermi, ci si muove. Ho sempre la sensazione di dover correre anche se non ho fretta, di sentire tutte le voci anche con la musica alta nelle orecchie. Ci si deve proteggere da soli. Non c’è spazio per la fragilità, tanto meno lavorando con chi soffre.
Ricercare troppa empatia e spingersi al limite del dramma, è tuttavia un rischio. Non esiste un modo unico per tutelarsi. Dipende dal carattere di ogni persona. Ho avuto colleghi interpreti che hanno chiesto esplicitamente di non essere mandati nei reparti di cure palliative, o rifiutarsi di entrare nelle terapie intensive pediatriche perché emotivamente troppo pesante. Per me l’esposizione al dolore, che comunque prima o poi proviamo tutti, è una sorta di palestra per la mia crescita personale e fondamentale per apprezzare i momenti di spensieratezza che ci vengono concessi al di fuori del lavoro. Tutta la drammaticità che vediamo nei film, nelle serie tv mediche non è realistica. È impressionante, anzi, notare quanta forza e integrità abbiano le persone malate, e da loro non si può che imparare.

Il ruolo di interprete medico spesso non è quello di “dare sentenze”, ma di riceverle insieme al paziente. Esistono linee guida anche su dove e come l’interprete si debba posizionare durante la conversazione, e cioè di fianco al paziente un passo indietro. Esattamente come se fosse un’ombra. Spesso i pazienti si sfogano nella sala d’attesa e raccontano tutte le disavventure che li hanno portati lì e in quel momento sento di diventare parte della squadra, non il vice allenatore che dall’alto impartisce nozioni e dà notizie. Ricevo il verdetto con loro e semplicemente lo esplicito nella loro lingua.
Gli italiani che si recano all’estero per cure mediche di vario tipo sono 350.000 all’anno, migliaia di questi nei soli Stati Uniti. I grandi centri di specializzazione a New York, in particolare, sono meta di italiani affetti da malattie principalmente oncologiche o neurodegenerative, quali il morbo di Parkinson, la malattia di Alzheimer, la sclerosi multipla, che sono patologie con il maggior bisogno di ricerca scientifica, di cui il suolo statunitense è grande patria e l’Italia tristemente povera.
Il desiderio principale degli italiani che scelgono di attraversare l’oceano e affrontare spese, imprevisti e barriere linguistiche, è di ricevere, se non una diagnosi meno catastrofica, la possibilità di fare ricorso a cure non disponibili o famaci non ancora approvati da agenzie quali l’EMA (Agenzia europea del farmaco). Ciò che un paziente disperato apprezza dell’approccio di molti medici americani è il coraggio e la volontà di prendersi certi rischi pur di migliorare la salute e lo stile di vita. L’approccio italiano è spesso più conservatore, per esempio nell’approccio a un intervento chirurgico rischioso. Il difetto, tuttavia, che ritengo vi sia in America, è l’estremizzazione della specializzazione, che va ad appannare una capacità di visione d’insieme che i medici italiani ancora conservano. Lo spettro della denuncia per malpractice è sempre in agguato e la tendenza è quella a non sbilanciarsi in campi che non siano il proprio. Anche la burocrazia relativa alla privacy è pazzesca, e i pazienti si ritrovano a firmare decine di documenti e rispondere alle stesse domande, talvolta infastidendosi.
Ma questo probabilmente è un prezzo che si paga ben volentieri per scorgere la luce della salvezza.
Fabrizio Caramagna scriveva: “Un dolore ti insegna a viaggiare a marcia indietro. Da grande a piccolo. Da ricco a povero. Dal superfluo all’essenziale.” Mi piace pensare che durante quel viaggio io possa fungere da traghettatrice
Ho assistito e tradotto conversazioni tra medici e genitori di ragazzini tetraplegici che, con sessioni di fisioterapia intensiva, recuperavano gradi di mobilità degli arti mai registrata prima dai loro medici italiani, vere e proprie grida di aiuto da parte di malati di cancro al cervello che scoprivano di essere operabili dopo una risonanza magnetica speciale eseguita a New York. Mi sono ritrovata ad essere abbracciata da pazienti colmi di rinnovata speranza, seppur con le tasche alleggerite di centinaia di dollari per una breve visita di controllo con il luminare della malattia di Alzheimer e ricette per l’acquisto di farmaci venduti solo in America. Ma ho anche sentito storie incredibili di uomini compagni di leva militare di Elvis Presley, musicisti che si esibivano nel jazz club per le grandi famiglie mafiose degli anni ’70, coppie che si conoscevano sulla nave e dopo 12 giorni di navigazione decidevano di sposarsi in gran segreto a Brooklyn. E la lista continua.
Vale la pena farsi carico di tanto dolore? Oh, sì. Ogni istante. È soprattutto attraverso il dolore che si cresce. E vivendo anche il dolore altrui, sono cresciuta immensamente di più e più velocemente. “Più grande è la capacità di amare, maggiore la capacità di sentire il dolore”, recitava un anonimo. Riflettendoci meglio, questa citazione avrebbe senso anche all’inverso. Non esiste causa ed effetto. Dolore e amore viaggiano sullo stesso piano e si scambiano di posto ad intervalli regolari. Fabrizio Caramagna scriveva: “Un dolore ti insegna a viaggiare a marcia indietro. Da grande a piccolo. Da ricco a povero. Dal superfluo all’essenziale.” Mi piace pensare che durante quel viaggio io possa fungere da traghettatrice, messaggera di parole, professionista della mia amata lingua e portatrice di empatia. Quel sentimento di cui il nostro paese è così disperatamente privo attualmente e di cui, in una struttura ospedaliera, così come in qualsiasi altra realtà quotidiana, abbiamo tanto bisogno.