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Che cosa mi aspetto dalla nuova comunità di alumni all’estero della “mia” Cattolica

Riflessioni di una ex studentessa dell'Università Cattolica dopo l'evento che, in presenza del Rettore Franco Anelli, ha fatto incontrare gli alumni a New York

Giulia PozzibyGiulia Pozzi
Che cosa mi aspetto dalla nuova comunità di alumni all’estero della “mia” Cattolica

Gli ex studenti dell'Università Cattolica a New York, foto di gruppo.

Time: 5 mins read

Una comunità di alumni a più di 6000 km da casa, fatta di professionisti impiegati in campi diversi, capaci di valorizzare il bagaglio culturale ricevuto in Università e trarre il meglio dall’esperienza professionale successiva, in Italia e all’estero. È stato questo il senso dell’evento organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore a Manhattan, in un piovoso venerdì sera di fine aprile. Un evento a cui hanno partecipato, oltre agli ex alunni che oggi vivono e lavorano a New York – il secondo gruppo dopo quello londinese – e al Rettore, prof. Franco Anelli, la Console Aggiunta Chiara Saulle e una rappresentanza della stampa italiana corrispondente dalla Grande Mela. Chi scrive faceva parte di entrambi i gruppi di ospiti: lavoro come giornalista, e mi sono laureata alla Cattolica, in Filologia Moderna, nel 2014.

La logica dell’iniziativa? “Ci diciamo sempre che l’Università è una comunità”, ha spiegato Anelli, ma non avrebbe senso qualificarla come tale se durasse solo “tre o cinque anni, coincidenti con la durata del corso di studi”. Se è una comunità, ha proseguito, ha un senso “che rimanga tale anche dopo”. Il Rettore ha sottolineato come gli ex studenti della Cattolica vantino tra i più alti ranking di employer reputation, che misura la soddisfazione del datore di lavoro rispetto alla preparazione del suo dipendente. Proprio per questo, una comunità di laureati “all’Università può servire enormemente, perché può avere da voi il ritorno di ciò che avete imparato lavorando”. Un feedback, insomma, utile per migliorare continuamente il servizio offerto e per avere la presa di ciò che avviene al di fuori dell’accademia. Altro obiettivo, “trovare un modo originale e nuovo per pensare all’organizzazione degli alumni”, ex studenti che, ha osservato Anelli, già i datori di lavoro riconoscono come “diversi”, e che potranno rivelarsi tali anche come comunità, come network di “relazioni umane”. 

Il Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, prof. Franco Anelli.

Quanto a me, potrete immaginare l’emozione di ritrovare un pezzo di casa – un pezzo della mia storia – dall’altra parte del mondo, dove adesso vivo. Anche perché, per me, gli anni universitari sono stati i più belli: è stato il momento in cui ho preso coscienza di chi ero e di che cosa volevo fare della mia vita, il periodo in cui, nonostante gli ostinati e saggi consigli di chi mi spronava a seguire vie più pragmatiche, ho stabilito che per realizzare compiutamente il mio essere avrei dovuto approfondire le cosiddette, tanto bistrattate, materie “umanistiche”, dalla letteratura alla filologia, dalla linguistica alla retorica classica, dal latino alla storia dell’editoria, fino alla critica, alla storia e alla filosofia: tutto quel prezioso bagaglio di sapienza umana troppo spesso etichettato come “inutile” e “inapplicabile” alle richieste del mercato del lavoro, o considerato perlomeno inadatto a garantire un futuro di stabilità professionale ed economica nel nostro Paese. Allora, nell’incoscienza dei miei 18 anni, mi rifiutai di credere che tale patrimonio culturale potesse davvero risultare “inapplicabile”, e decisi di seguire la passione.

Non me ne sono mai pentita, tutto sommato, sebbene io, come alcuni altri ex studenti incontrati quella sera, anche tra coloro che hanno scelto percorsi diversi, mi sia poi successivamente scontrata con precariato, stipendi bassi, mancanza di opportunità e tutti i problemi del mercato del lavoro italiano che ben conosciamo: più o meno le motivazioni per le quali oggi mi trovo a scrivere queste righe dall’altra parte del mondo. All’epoca, scelsi la Cattolica – io, che pure credo fermamente nell’istruzione pubblica – perché conoscevo l’alto livello di formazione che, soprattutto nel corso di laurea a cui volevo iscrivermi, garantiva. Inoltre, lo confesso, speravo che la sua illustre e meritata reputazione mi avrebbe facilitato un po’ il percorso a ostacoli che, ne ero consapevole, mi avrebbe attesa una volta varcata per sempre quella soglia.

Sarò del tutto onesta con voi lettori, come la mia professione mi impone di essere: pur essendo cresciuta in una famiglia cattolica, negli anni mi sono trovata più a mio agio in ambienti maggiormente laici, che forse avrei trovato più affini alla mia sensibilità in altri Atenei. D’altronde, sono fiera di poter dire di aver ricevuto una solidissima formazione, che ha tenuto insieme l’approccio fortemente culturale insito a una facoltà come quella che ho frequentato, e la capacità di guardare al presente e al futuro, con corsi e laboratori più legati al mondo dell’editoria e quindi ai nuovi aspetti digitali che ogni buon letterato interessato a comunicare nel mondo di oggi deve conoscere. La Cattolica mi ha dato, anche, l’opportunità di confrontarmi con professori illustri, tra i migliori nel loro campo, e di sperimentarmi in un ambiente dove, almeno nel mio caso, ogni buon voto è stato sudato e meritato.

Non nego, tuttavia, di essere rimasta tante volte delusa nel constatare che la passione e anche la fatica che ho messo nello studio – pienamente ricompensata dai risultati –  non mi abbia però garantito la possibilità di realizzarmi nel mio amato Paese. Una situazione che, purtroppo, mi accomuna a tanti brillanti giovani italiani, con diverse specializzazioni e lauree conseguite nella mia Università e in altre altrettanto prestigiose. Non sono l’unica – ne sono certa – ad aver ricevuto tante porte in faccia (spesso nella forma di curriculum mai letti e palesemente ignorati) nella complessa ricerca di un impiego che fosse nelle mie corde e pagato decorosamente; non sono l’unica ad aver inanellato delusione a delusione, nonostante – a partire dalla scelta, se non della facoltà, perlomeno dell’Università – abbia sempre cercato di creare i presupposti giusti per costruirmi un futuro lavorativo dignitoso. La prima di questa serie di delusioni giunse subito dopo la laurea, quando chiesi ad un professore che ricordo con grande stima la possibilità di fare un dottorato nella mia materia di specializzazione. Lui, con franchezza e realismo, mi avvertì che, soprattutto se avessi ambito a ottenere una borsa e poi, chissà, a tentare la carriera accademica, la strada sarebbe stata decisamente impervia. Poi, come si dice, se ne occupa la vita: a ripensarci ora, non fatico a trovare il “rovescio della medaglia”. Quel consiglio schietto – allora motivo di scoramento – mi ha infatti spronata a guardarmi dentro e decidere di seguire quella che è sempre stata la mia prima scelta, la strada, forse non meno difficile ma la più sentita, del giornalismo. Quell’episodio del mio passato resta, tuttavia, sintomatico di un problema che non riguarda solo questa o quella Università, ma il sistema Italia ben più in generale, e che è la ragione per la quale, nel solo 2017, si sono iscritti all’AIRE per motivi di espatrio 130mila connazionali, e che, secondo l’Istat, solo in quell’anno hanno lasciato il Belpaese quasi 28mila laureati.

Proprio alla luce di tutto ciò, penso che l’iniziativa della mia Università rivolta agli alumni all’estero sia un’occasione da non sprecare. L’auspicio è che si possa partire proprio dagli ex studenti oggi lontani dall’Italia per avviare un ragionamento serio sulla grande, vera emergenza per il nostro Paese: una inarrestabile e straordinaria perdita di capitale umano, un conseguente tragico impoverimento culturale, una emorragia di risorse e di patrimonio tecnico e intellettuale che ora paghiamo noi, e in futuro pagheranno i nostri figli e i figli dei nostri figli. La buona notizia è che i presupposti per creare un network che possa dare un contributo anche su questo tema ci sono tutti: perché, ad unire noi ex alunni, non c’è soltanto l’illustre Ateneo da cui proveniamo, ma anche la lontananza da casa, l’adrenalina e le sfide del vivere in un Paese straniero, e tutto il bagaglio di conseguenze emotive, personali, professionali e pratiche che questa scelta comporta. Compresa la consapevolezza che, per quanto in tanti di noi sia vivo il dolore di non poter, al momento, svolgere la nostra professione alle stesse condizioni e a pari livelli nella nostra amata Italia, l’essere qui costituisce un’opportunità in più, che probabilmente non avremmo avuto senza una solida preparazione culturale alle nostre spalle.

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Giulia Pozzi

Giulia Pozzi

Classe 1989, lombarda, dopo la laurea magistrale in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano si è specializzata alla Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma e ha conseguito un master in Comunicazione e Media nelle Relazioni Internazionali presso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI). Ha lavorato come giornalista a Roma occupandosi di politica e affari esteri. Per la Voce di New York, è stata corrispondente dalle Nazioni Unite a New York. Collabora anche con "7-Corriere della Sera", "L'Espresso", "Linkiesta.it". Considera la grande letteratura di ogni tempo il "rumore di fondo" di calviniana memoria, e la lente attraverso cui osservare la realtà.

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