Da bambina, i miei Natali erano un lento e inesorabile viaggio dalla gioia più pura alla malinconia più struggente. I giorni che precedevano il 25 dicembre erano irrigati di entusiasmo ed emozione, con il rito della preparazione dell’albero durante il ponte dell’Immacolata diretto da papà e la trepidante attesa nel veder crescere il numero di pacchetti incartati a festa sul tappeto sotto l’abete ingioiellato. Se un po’ di neve scendeva, era gran festa: con buona pace di chi doveva spalarla per far aprire il cancello di casa (sempre papà, di solito) e dei pendolari più attenti alla praticità che al romanticismo. Poi arrivava la Vigilia, quindi il Natale, lo strascico di Santo Stefano in cui si mangiavano gli avanzi e il progressivo e inevitabile scivolare verso la malinconia, mentre quel magico periodo dell’anno si tramutava a poco a poco in quello che, per usare un termine mutuato dal Cattolicesimo, può definirsi tempo “ordinario”, inevitabilmente segnato dal rientro a scuola.
Certo, crescendo me ne son fatta una ragione: tutto scorre, ci insegna il greco Eraclito, e noi che (fortunatamente) restiamo non possiamo fare a meno di accettarlo con saggezza e un pizzico di rassegnazione. Eppure, c’è da ammetterlo, il processo di elaborazione del lutto è risultato un poco più agevole fino a quando quella che da bambina rappresentava per me una piccola consolazione – il fatto che il mio compleanno cadesse esattamente 7 giorni dopo l’Epifania, il che ci permetteva di mantenere l’albero di Natale fino all’esaurirsi di quell’ultima occasione per festeggiare – ha cominciato invece a trasformarsi in una causa di ulteriore melanconia e angoscia del tempo che passa. Questo è accaduto all’incirca a partire dal compimento dei miei 25 anni, e visto che ora mi attendono i fatidici 30 vi lascio immaginare lo stato d’animo con cui mi appropinquo verso la fine delle feste.
Quest’anno, poi, al quadro descritto sopra s’aggiunge un’ulteriore aggravante: perché questo appena trascorso è stato il mio primo vero Natale da expat. Non amo indossare questa definizione come un’etichetta: anche perché, al momento, ho poche certezze su quello che sarà di me il prossimo anno, e può persino darsi che io sia destinata a tornare nel mio bello e dannato Paese. Per ora, però, la situazione è la seguente: vivo sull’altro lato dell’Atlantico da più di un anno, e all’incirca per un altro (e magari pure di più) ho in programma di rimanerci. E da expat (chi lo è forse mi capirà), il Natale è un po’ come tornare bambini. L’attesa si raddoppia, perché sai che a breve balzerai con gioia su un aereo senza vedere l’ora di saltare al collo a chi ti accoglierà dall’altra parte. I primissimi giorni sono colmi di ritrovamenti e recuperi: che goduria riappropriarsi del proprio letto, del proprio divano compagno di mille serate di pigrizia, della televisione maxi schermo che dove vivi non ti puoi permettere, dei rassicuranti jingle natalizi degli spot in Tv che tornano puntualissimi ogni anno, delle strade del paesello che ti ha dato i natali, popolate da volti noti, chiacchiere nella tua lingua madre, calorosi abbracci, domande curiose. Per non parlare, poi, della prima spesa dal rientro in Italia: l’Esselunga diventa il Paese dei balocchi, dove, con pochi euro (perlomeno in relazione a quanto si spende a New York), ti riempi il carrello di generi alimentari che al di là dell’Oceano avresti pagato a peso d’oro, come pomodorini secchi, olive, mozzarella di bufala, burrata, salumi, prosciutto San Daniele, pesce, mandarini succosissimi a 0,88 centesimi, dolci e biscotti dal gusto delicato e ben lontani da quei tracotanti blocchi di burro made in USA, gustosissimo caffè che non sia brodaglia in polvere da sciogliere dentro un po’ d’acqua.
Si ritrovano le vecchie abitudini, tornati a casa: le chiacchiere al bar con gli amici, il mercato del martedì mattina, la metropolitana che per anni ti ha scarrozzato all’università e della quale osavi pure lamentarti, prima di conoscere quella di Roma e di New York, la nebbiolina padana che cala la sera e si risolleva (se si risolleva) solo a metà mattina, le battute in dialetto, la bicicletta legata al cancello della biblioteca, i vecchierelli serenamente seduti al bar del centro, le campane del mattino e della sera.
E allora inizia la tribolazione, la lotta dura e senza quartiere tra la parte di te che è cresciuta qui e la parte di te che se ne è andata, con la prima che rammenta alla seconda tutto quello che hai lasciato dal giorno in cui hai chiuso la porta di casa alle tue spalle, e la seconda che ricorda alla prima tutte le chance che hai dato al tuo Paese, salvo poi renderti conto che, dove sei ora, qualche speranza di realizzazione si intravvede, i primi risultati arrivano, e dopo un po’ che sei lì la nostalgia passa e resta l’adrenalina dell’esperienza fatta solo per se stessi, con l’orgoglio di non aver accettato nessun compromesso pur di restare dove sarebbe stato infinitamente più comodo. E poi, chissà, magari in futuro le cose cambieranno.
Così, man mano che i giorni passano, inizia la fase dell’ansia: l’ansia di contare i giorni che ti separano dalla partenza (esercizio che la sottoscritta si ostina a evitare ad ogni costo, salvo poi scontrarsi fragorosamente con la dura realtà intorno ai meno 3), l’ansia di salutare tutti, l’ansia di incastrare la propria agenda con quella di altre 20 persone per non lasciare nessuno non visto o non incontrato, l’ansia di dare un’occhiata alle vite degli altri, di quelli che sono cresciuti con te, e che magari nel frattempo hanno trovato lavoro, un compagno o una compagna, hanno preso casa, si sono sposati o hanno già avuto un bambino; l’ansia di immaginarsi in quei panni, di pungolare quel pezzetto di te che una vita più tranquilla l’avrebbe pure voluta, di chiedersi di nuovo se si è fatta la scelta giusta, sapendo che, per mettere in pratica la propria vocazione, si è stati costretti a buttare a mare tutte le certezze di un tempo; l’ansia che si prova a lasciarsi sommergere dai dubbi e dalla solita domanda che, a tratti, torna a bussare alla porta: “Ma chi me l’ha fatto fare?”.
Chi me l’ha fatto fare di abbandonare così la mia comfort zone? Una decisione che suscita caduca ammirazione in chi è rimasto e qualche like in più sul proprio profilo Facebook, ma poi ne vale davvero la pena? Chi me l’ha fatto fare di salutare mamma e papà, che, nonostante siano fortunatamente in ottima salute e grande forma fisica, cominciano a essere gravati dal peso degli anni? Chi me l’ha fatto fare di lasciare i miei affetti più cari, i punti di riferimento della mia vita, correndo il rischio che poi le nostre esistenze ci avrebbero irrimediabilmente separati? Chi me l’ha fatto fare di allontanarmi tanto da un Paese che, per quanto tormentato e irriconoscente, resta il più bello del mondo?
La fase dell’ansia trova il suo culmine il giorno prima della partenza: riponi le cose in valigia ricordando quando, due settimane prima, ti dedicavi all’operazione esattamente contraria, contando le ore che ti separavano dalla partenza, e quando, appena scesa dall’aereo, i pochi giorni a venire ti parevano eterni. L’ultima giornata passa a dir poco frenetica, e rigorosamente a velocità doppia rispetto alle altre (qualche scienziato dovrebbe pur studiare questo strano fenomeno fisico!): le compere prima di partire (ché in America non si può tornare senza 20 dei 23 kg di valigia occupati da generi alimentari), bagagli da fare e poi ricontrollare, ultime persone da salutare, e quel costante rimandare l’ora di dormire perché poi, quando si riapriranno gli occhi, sarà quasi quella di risalire su sull’aereo. Che un motivo sicuramente c’è, se sei partita, ma a volte, per ritrovarlo sotto tutte le emozioni che si accatastano l’una sull’altra nel corso dell’atteso periodo in patria, una certa fatica la si fa. Così, mentre le luci del Natale si spengono, nei giorni in cui da bambina saresti stata più malinconica che mai, tu stai viaggiando sopra le nuvole un po’ più pesante e un po’ più leggera. Perché la malinconia, rimpinguata di ricordi vividi, pesa – altroché se pesa –, ma un bel pezzetto di cuore è rimasto di là, da dove vieni e da dove parti, e non ci sarà proprio modo di portarselo dietro.