Primo Levi diceva che ogni traduzione è inevitabilmente un compromesso: per Linda De Luca, è innanzitutto una vocazione. Una vocazione per l’”internazionalità”, il mettere in contatto realtà altrimenti incomunicabili, creare un legame dove, a prima vista, è più difficile farlo. In tante situazioni e ambienti diversi: alcuni più tranquilli, altri più ostici. “Ho deciso di diventare traduttrice a 19 anni”, racconta. “L’altra opzione era psicologia. Ma il dubbio durò pochi giorni. Fu una scelta molto naturale”. Linda è italiana, di Varese, ma vive e lavora nella Grande Mela da quasi 5 anni, collaborando con tante realtà diverse: “aziende, scuole, ospedali, case editrici, studenti privati”. Tra le sue passioni, quella, mai estinta, per la scrittura, destino, ci ricorda lei, storicamente comune a tanti “illustri” che si occuparono della traduzione di testi letterali: e non dev’essere un caso che una delle più importanti collane novecentesche della casa editrice Einaudi si chiamasse “Scrittori tradotti da scrittori”, e presentasse al pubblico un Flaubert tradotto da Natalia Ginzburg, un Kafka passato per la penna di Primo Levi e un Eschilo riletto e reinterpretato da Pier Paolo Pasolini.
Non solo: nella memoria di Linda sono rimaste tatuate moltissime storie, di quelle che solo una città come New York può permetterti di conoscere. Soprattutto, quando la tua professione ti obbliga a entrare in contatto con le persone, un contatto spesso molto più profondo di quello che si potrebbe pensare. Perché, dice lei, tradurre non significa soltanto “trasporre”: significa innanzitutto “gettare un ponte”, in tempi – quelli in cui viviamo – in cui è sempre più difficile farlo. Le abbiamo chiesto di raccontarci che cosa implica compiere questa opera di mediazione negli ospedali americani, facendosi veicolo tanto delle informazioni mediche, quanto del dolore e delle emozioni dei pazienti, e quali principali differenze rileva rispetto al sistema sanitario italiano. Ma con lei abbiamo fatto anche un bilancio delle altre prestigiose esperienze che costellano il suo curriculum, dall’interpretariato per Roberto Saviano a New York, alla traduzione di libri e show televisivi come Grey’s Anatomy.
Linda, cominciamo dal tuo lavoro in ospedale. Avrai incontrato sulla tua via tante persone e ascoltato tante storie diverse. Ce n’è qualcuna che ti ha colpita più delle altre?
“Le storie di cui sono stata testimone sono, azzarderei dire, qualche centinaia. Tutte incredibili, affascinanti. Non posso chiaramente entrare nei dettagli per questione di privacy, ma ho assistito coppie di pazienti che partiti dal Sud Italia negli anni ’50, si conobbero in nave e si sposarono in segreto dopo pochi giorni a Brooklyn, pazienti che fecero il militare con Elvis Presley, musicisti che suonavano per le grandi famiglie mafiose nei jazz club più famosi della città. Ho conosciuto il macellaio italiano nominato dal New York Times il migliore di New York, italiani che vivono tra l’Italia e il Venezuela in condizioni di miseria, ho visto adolescenti intubati in fin di vita, ragazzini tetraplegici decisi a diventare scienziati. Sono entrata in sale operatorie e tenuto la mano a pazienti in lacrime. Ho dovuto tradurre a uomini grandi e grossi che avevano 5 mesi di vita e sentirmi rispondere, con un sorriso: “Beh, meglio di 2”. La lista è lunga”.
Il tuo lavoro richiede precisione e professionalità, ma l’ambito ospedaliero ti mette a contatto ogni giorno con storie di malattia e dolore. È difficile non lasciarsi sopraffare dalle emozioni?
“Dipende dai casi. Paradossalmente, all’inizio ero molto più forte e distaccata. Penso fosse l’imposizione della disciplina imparata durante la fase di training all’interpretariato medico. O, forse, perché col tempo, ricevendo più fiducia dalle varie agenzie, mi venivano affidati casi e strutture ospedaliere sempre più impegnative. Ho assistito pazienti dalle storie veramente tragiche, e mi sono talvolta ritrovata a piangere in un bagno fuori dallo studio medico, dopo essermi trattenuta per lungo tempo. Sì, a volte è difficile, per me soprattutto, vedere familiari piangere dal dolore. Non credo ci si abitui mai veramente a questo. Ma non mi è mai capitato di rifiutare un lavoro per timore di essere sopraffatta. Lo vivo come dovere professionale e morale, e quasi anche come un test per me stessa, quindi non potrei mai sottrarmi”.
In un ambito come quello ospedaliero, si può pensare che la tua opera di traduzione avvenga su due piani: uno prettamente denotativo, che richiede la comunicazione delle mere informazioni mediche, e uno più connotativo, che ti porta a trasmettere anche l’universo delle emozioni del paziente in relazione alla propria condizione. Quali sono le difficoltà che incontri nel tenere insieme questi due piani?
“Mi sono spesso resa conto che la mia traduzione può davvero fare la differenza in un ambito come quello ospedaliero. Tante volte un paziente annuisce col capo, facendomi intendere di aver capito come avverrà l’operazione, o quale dose di farmaco dovrà prendere, o come utilizzare a casa il macchinario per facilitare la circolazione del sangue nelle gambe, ma non è sempre così. Occorre assicurarsene, ripeterlo. Tradurre comunque. Sul piano dell’informazione trasmessa, devo essere quasi un robot. Cerco di annullare l’emisfero emotivo del mio cervello ricordandomi l’importanza di quello che viene detto. Il paziente italiano, poi, tende sempre a fare domande personali, incuriosito dalla mia provenienza, dal mio background e opinioni sull’America. “Lei di dov’è? Ahh, milanese. È una polentona!”, mi sono sentita dire. “Non le manca la famiglia?” Insomma, spostarsi sul piano umano e “confidenziale” è facile e inevitabile. A volte anche necessario, per mettere il paziente a proprio agio e farlo tranquillizzare. Inizialmente cerco di non dare mai troppi dettagli, né rispondere con altrettante domande. Ma quando accade, faccio in modo che si limiti alla parentesi di attesa in sala”.
E cosa ti porti a casa da questi incontri?
“A casa mi porto tantissimo: in primis una prospettiva di vita diversa. Tutto ciò che può esserci di problematico nella mia vita personale va ad assestarsi su un altro piano, poiché davvero ci si rende conto di “quel che vale veramente” (cito la canzone “La fine della chemio” che mi dà sempre coraggio). Mi porto a casa una forza nuova, la capacità di empatizzare ancora più profondamente, la ricchezza di aver ascoltato storie di vita incredibili, spesso da copione cinematografico, l’accrescimento delle mie conoscenze mediche, la realizzazione di me stessa come professionista ed essere umano”.
È cambiato il tuo rapporto con il dolore, la tua concezione dell’esistenza e delle tue priorità da quando hai iniziato a lavorare in ospedale?
“Assolutamente sì, è cambiato il mio rapporto col dolore. Sebbene rapportarsi col dolore altrui e con il proprio stiano su livelli paralleli ma distinti, ho imparato a gestirlo, a darvi un peso razionalmente “giusto”, vale a dire non drammatizzare quel che non vale la pena drammatizzare. Essere testimone di drammi quotidianamente fortifica e sensibilizza allo stesso tempo. Non sempre si riesce a seguire la regola d’oro “goditi la vita ogni giorno appieno”; siamo umani e la debolezza va accolta di tanto in tanto e curata, ma la consapevolezza credo sia fondamentale. Assistere ragazzini tetraplegici e le loro madri ti porta automaticamente a smettere di lamentarti per un mal di testa o il bisogno di ferie. Perché capisci che poter contare sulle tue gambe e su un sistema nervoso funzionante è già un dono. Anzi, all’estremo di ciò, c’è il dispiacere nel saltare un giorno di lavoro e perdere l’opportunità di conoscere e migliorarmi. Un pensiero che faccio spesso mentre sono in ospedale è: questo è il mio posto nel mondo. Ora, qui e con queste persone”.
Si dice spesso che il sistema sanitario nazionale italiano pubblico sia un’eccellenza nel mondo. Lavorando negli ospedali statunitensi, quali differenze ti sono saltate all’occhio?
“Il sistema sanitario americano è complicato da capire e da gestire. La copertura assicurativa, non sempre intuitivamente calcolabile al centesimo (anzi…), costituisce quasi sempre una grande fonte di ansia e causa di “battaglie” per i pazienti. In Italia, per quanto si paghi anch’essa in altre forme e modi, non vi è un tale dispendio di denaro (rimanendo nell’ambito della sanità pubblica) e non c’è il fattore imprevedibilità del conto che arriva a casa. Potete immaginare le fatiche di chi soffre di una malattia e deve recarsi regolarmente in ospedale. In genere gli anziani si proteggono con due assicurazioni, per avere la certezza della copertura al 100%, ma i costi chiaramente si alzano, e vedono molto spesso le loro pensioni riversate nelle tasche di Medicare & co”.
Dove, secondo te, c’è più cura al paziente come “persona”?
“Da questo punto di vista, onestamente non trovo una discrepanza enorme. La falsità della frase “in America ti lasciano morire per strada” spero sia ormai oltrepassata. Io lavoro in ospedali all’avanguardia (NYU Langone, Memorial Sloan Kettering, Presbyterian, ecc. a Manhattan) e il servizio recato ai pazienti, sia in termini di qualità dei medici che di logistica, pulizia, supporto umano, è, per la mia esperienza, sempre ottimo. L’unico difetto che ho notato è appunto la gestione del rapporto con le assicurazioni che causa spessissimo incomprensioni e ansie. Trovo che la competenza dei medici in Italia (e qui mi riferisco quasi esclusivamente agli ospedali del Nord, da dove vengo) sia altrettanto eccellente. Anzi, ho notato negli anni che la formazione medica italiana offre una visione d’insieme più ampia di quella americana. Sia per ragioni di pura istruzione universitaria che di potenziali denunce per malpractice, i medici americani si sottraggono spesso dal fare diagnosi in ambiti che non riguardano strettamente la loro specializzazione e mandano il paziente dal collega neurologo o ematologo o endocrinologo o chi per esso. La flessibilità italiana la trovo, anche in questo campo, assolutamente apprezzabile e ci fa onore”.
Spesso si crede erroneamente che la professione del traduttore non richieda una professionalità specifica se non quella della generica conoscenza delle lingue. Quali altre abilità, invece, sono secondo te necessarie, ma vengono ignorate dal “grande pubblico”?
“Ahimè, come in tanti mestieri, non sempre si riesce ad apprezzare e capire il valore. Anzi, spesso, e mi duole dirlo, lo noto più spesso nella mentalità italiana che in quella americana, si minimizzano le abilità di un professionista, magari per giustificare il mancato o ritardato pagamento o la tariffa bassa. Le abilità necessarie sia a un traduttore (quindi in ambito scritto) che a un interprete (ambito orale) sono, oltre ad una padronanza generale eccellente delle due lingue, la capacità di scelta oculata dei vocaboli che tengano conto di tecnicismi e sfumature, o, e ancora più nel caso delle espressioni, di nuance culturali e intenzioni. In fase di interpretariato c’è poi chiaramente la prontezza, la sicurezza, l’espressività e, in ultimo, ma fondamentale, la costante concentrazione. In aggiunta all’aspetto linguistico, vi è tutta una parte di deontologia professionale che è, soprattutto nell’ambito medico, importantissima. Il rispetto dei diritti del paziente e della privacy, la conoscenza delle linee guida da seguire quando ci si trova in un ospedale – come porsi, dove posizionarsi, cosa non chiedere quando si approccia il paziente, dove sta il confine tra cordialità e invadenza, le regole di igiene, ecc. Lo scopo in una traduzione scritta è, invece, non far percepire minimamente che il testo provenga da una lingua straniera, quindi mantenere la fluidità del discorso, la coerenza di concetti, la comprensione e continuità dello stile, la dinamicità o appiattimento. Qualsiasi elemento va riprodotto. Nel caso di testi letterari, occorre essere fedelissimi ambasciatori dell’autore, entrare nella sua mente e riprodurre la sua penna. Non deve mai trapelare lo stile del traduttore, la cui forza deve essere invece la versatilità. I traduttori sono veicoli, ponti, devono annullare la propria essenza e assorbire quella della persona a cui danno voce. La padronanza della propria lingua madre è fondamentale. Per questo spesso e volentieri, soprattutto tra i traduttori di romanzi classici o poesie, nascevano scrittori (cito per esempio Cesare Pavese, Umberto Eco, Jorge Luis Borges, Haruki Murakami, Samuel Beckett). Per essere un ottimo traduttore ritengo ci debba essere un talento o un’abilità coltivata di scrittore. In uno dei libri di Jack Ketchum che tradussi, leggo spesso ancora la sua dedica: “A Linda, la mia voce, la mia penna in Italia”. Questo siamo”.
Ogni sistema linguistico è, in sé, non solo un insieme di lessico e sintassi ma un intero universo culturale. In questo senso, la missione di mediazione del traduttore sembra in certi ambiti sempre più necessaria, specialmente in tempi di grande diffidenza come quelli in cui viviamo. Che ne pensi?
“Vero, è sempre più difficile adottare il linguaggio “giusto”, “politicamente corretto”. Questo vale per i giornalisti, gli scrittori, e di riflesso vale per i traduttori. Mi sono trovata l’anno scorso a tradurre un’intervista alla modella curvy Ashley Graham (bellissima e simpaticissima!) e venivano usate molte espressioni, più o meno colorite, per riferirsi a una donna “in carne”, col fondoschiena grosso. Lei, notando la mia esitazione in un frangente, mi disse: “Usa pure “culone”, non preoccuparti!”. Ricordo anche una lezione durante un corso di specializzazione qui a New York in cui il professore fece la lista di espressioni da non usare per riferirsi alle persone di colore, agli orientali, ai bianchi. Insomma, pareva che tutto fosse potenzialmente un insulto. In un mondo in cui le razze di mescolano, le culture risultano sempre più ibride, e i confini sempre meno netti, la traduzione diventa sempre più delicata. Penso agli interpreti, ad esempio presso il Parlamento Europeo, che hanno un compito delicatissimo, o all’episodio, tra i tanti, in cui un interprete russo tradusse il discorso di Khrushchev troppo letteralmente, per cui risultava che i russi volessero “seppellire gli Stati Uniti” (“we will bury you”), quando il significato vero era “Vivremo più a lungo di voi”. Oggi che le campagne politiche sono fatte di tweet e di slogan, la traduzione assume davvero un ruolo chiave”.
Tra tutti gli incarichi svolti nel corso della tua carriera, quale è stato il più difficile o stimolante?
“Il più difficile sul piano umano è di sicuro il lavoro negli ospedali, specialmente quelli oncologici. Il più stimolante la traduzione di libri perché si lascia una traccia scritta di sé (quando ho tradotto la prefazione di Stephen King ne “La ragazza della porta accanto” di Jack Ketchum ero davvero – quasi fisicamente! – emozionata) e degli show televisivi come Grey’s Anatomy – serie che amo. Un altro sogno che si è realizzato. Anche l’interpretariato alla biblioteca pubblica di New York con Roberto Saviano e Jon Lee Anderson è stata una grandissima emozione e soddisfazione, sia per il calibro dei personaggi che per la location magica”.
Progetti per il futuro?
“Nei miei progetti futuri c’è lo sviluppo della società che ho da poco fondato e la creazione di una più ampia rete di collaboratori. Conto di proseguire nella traduzione delle serie televisive per le nuove stagioni in uscita (niente spoiler! ;) ), e magari l’inizio di nuove. Proseguirà l’attività di insegnamento, che è una fedele costante per me da molti anni e mi piace sempre. Lavoro a parte, sogno un viaggio in Giappone. Arriverà anche quello! Anzi, farò in modo che arrivi (al detto “good things come to those who wait” non ho mai creduto…)”.