
Il 26 marzo, è avvenuta al Calandra Italian American Institute della CUNY la presentazione del libro New Italian Migrations to the United States: Vol. 2: Art and Culture Since 1945. E’ il secondo – e ultimo – volume di una raccolta così fondamentale per il filone accademico italo-americano, raccontato dai due curatori Joseph Sciorra, del Calandra Institute, e Laura Ruberto, del Berkeley City College. “Sono lieto di averli qui per la qualità del loro lavoro”, un lavoro che molti cercano ma “pochi fanno”, ha detto Anthony Tamburri, preside del Calandra Institute. Alle presentazioni dei due curatori, hanno poi seguito quelle degli studiosi che hanno contribuito alla stesura del libro, John Allan Cicala, Teresa Fiore, e lo stesso Tamburri.
Entrambi i volumi si riferiscono all’immigrazione italiana negli Stati Uniti dal 1945 al presente, ma mentre il primo si concentrava sul campo politico e storico, il secondo riguarda l’arte e la cultura. Nello specifico, il libro presentato ieri sera vuole sfidare le tappe tradizionali della migrazione italiana verso gli Stati Uniti attraverso un’interpretazione dell’arte e della cultura italo-americane viste come flusso incessante di cambiamento e condizionamento reciproco. Ogni nuovo gruppo di italiani e di loro discendenti ha creato modelli e influenze proprie e nuove nell’identità italo-americana e nell’idea americana dell’italianità.
Prendendo la parola, Joseph Sciorra ha spiegato “come i due volumi stanno contribuendo alla crescita del sapere accademico riguardo alla conoscenza generale degli italo-americani”. La base dei libri è infatti lo studio della storia e della cultura italo americana della terza generazione, che continuò ad avvenire dal 1945 fino ad oggi. E quella più recente, a mio parere, ancora mancava di un’interpretazione così completa e multidimensionale.
“Il nostro volume propone una rivisitazione radicale del pensiero storico riguardo alla periodizzazione standard fatta solitamente a livello istituzionale riguardo alla migrazione italiana negli Stati Uniti”, ha continuato Sciorra. “Il nostro libro va contro quella visione tipica della migrazione italiana” e osserva quella che oggi viene chiamata “’nuova visione’ dell’America Italiana”, che ha delle peculiarità proprie a livello politico, storico, culturale. Il primo tema trattato nel volume, e anche quello più controverso, è quello dei nomi, delle denominazioni, di chi può e come chiamare gli italiani che sono migrati verso gli Stati Uniti. E’ “Real Italian” un termine appropriato? Un altro tema molto importante è quello dei “prodotti e delle idee che viaggiano dopo il 1945”, come si è creata l’idea dello stile italiano, nella moda, nei film e nell’arte, e come questi influenzino il modo di sentirsi Italo-Americani. E, infine, mai bisogna dimenticare la letteratura degli immigrati, che scrivono dall’America in inglese e rivoluzionano il modo in cui gli italiani e gli italo-americani sono presentati davanti alla percezione americana.
Laura Ruberto ha continuato la presentazione del libro che ha cercato di tracciare e conoscere i modelli della migrazione da una lente artistica e culturale. “Abbiamo rintracciato dei dati, non solo di quante persone sono arrivate, ma anche di che tipo di persone, cosa abbiano fatto quando sono arrivate e come il lavoro che hanno fatto riguardo a arte e cultura, in senso profondo, hanno influenzato la cultura americana in generale e quella italo-americana nello specifico”. La portata enorme delle migrazioni italiane, “non ha a che fare con l’Italia quanto con gli Stati Uniti”, ha detto Ruberto, e con la loro politica migratoria. Infatti, fino al 1965 è rimasta in vigore la legge che restringeva i numeri di immigrati a seconda del Paese di provenienza. Dopodiché si creò “un processo di selezione più equo”, e questo influenzò ulteriori cambiamenti di sfumature caratteristiche della migrazione italiana.

Il contributo di Joseph Sciorra, nella sua sessione “Non dimenticare che hai parenti qui”, si basa sullo studio de “La Grande Famiglia”, radio show di quindici minuti trasmesso dal 1948 al 1961 dalla WOV-AM, una stazione di New York con un ampissima programmazione in italiano. La radiotrasmissione era una campagna marketing ideata per la compagnia di cibo Italo Americano, Progresso Italian Food Corporation, e trasmetteva in America gli audio di ogni tipo registrati dall’Italia, soprattutto quelli da parte delle famiglie degli emigrati rimaste in Italia e che tentavano di mettersi in contatto con i parenti oltre oceano. “La Grande Famiglia” arrivava anche a Miami, New Britain, Pasadena e Pittsburgh, e si quantifica che mezzo milione di famiglie parteciparono a questa comunicazione internazionale.


Il capitolo di Laura Ruberto guarda la migrazione attraverso la lente del cinema di Hollywood, che ha ritratto le donne italiane e, attraverso queste, l’italianità dopo la Seconda guerra mondiale; soprattutto nei primi 15 anni dopo il conflitto. Ruberto, nella sua presentazione, si è soffermata sul film “Teresa”, 1951, in cui una giovane donna italiana arriva a New York dopo aver sposato un soldato americano, per ricongiungersi a lui; la protagonista è poi costretta a lottare per tenere insieme un matrimonio nato durante la guerra, in un Paese che non è il suo.
Grazie a questo e a molti altri esempi, la professoressa è riuscita a creare un filo conduttore di analisi rispetto a come Hollywood ha capitalizzato per decenni il ruolo delle celebrità italiane; e a come le imprese americane stavano guardando alla cultura italiana, grazie anche ai vantaggi fiscali. Come Pier Angeli, attrice di “Teresa”, anche molte altri attrici – tra cui Anna Magnani, Pier Angeli, Sofia Loren – furono trasformate in immigrate “ipersessualizzate”. Erano provocatorie, presentate umoristicamente come rifugiate di guerra, orfane o prostitute. “Sono vogliose sessualmente, esotiche”, e la loro sessualità è accentuata dai corpi e dai comportamenti lascivi. Ma allo stesso tempo, ciò che non bisogna dimenticare è la loro indipendenza. Le donne italiane rappresentate nei film del dopo guerra non si riconoscono nella comunità italo-americana che incontrano nel nuovo continente, e questo fa di loro dei personaggi rimangono, nonostante tutto, fortemente indipendenti. E questi connotati, insieme, “influenzano altamente il modo in cui gli italo-americani sarebbero stati visti nei decenni successivi”, ha terminato Ruberto.

John Allan Cicala ha contribuito al volume attraverso il suo studio su Silvio Barile, un artista italiano immigrato in America. Una volta arrivato nel nuovo continente, comprò una bakery; ma nel 1975, insoddisfatto dall’ipocrisia americana e provato dal suo recente divorzio, pensò di iniziare a creare sculture in cemento che rispecchiassero l’italianità, e di esporle in un terreno che aveva comprato vicino alla sua bakery. Il suo scopo era convincere gli americani ad accettare i valori, la religione, la morale dell’Italia e “trasformarli” in italiani. “Voglio che gli americani siano italiani, non che semplicemente ammirino l’Italia”, e che gli italiani possano ricordarsi chi sono davvero. Per questo, Barile tende a rappresentare iconografie americane “circondate da un ambiente italiano”, ha detto Cicala.

Nel 2008 l’artista realizzò che, invece, non avrebbe mai potuto italianizzare gli americani, ma neanche gli italiani. Così decise di cambiare stile e iniziò a rappresentare la memoria del glorioso passato romano. Le sue opere sono caratterizzate dall’assenza di storia da raccontare, ma anche da un ritorno continuo dei simboli del ricordo; rappresentano così una dicotomia tra le due facce dell’America, da una parte posto di rifugio, dall’altra posto in cui sperimentare l’alienazione che lui stesso ha sperimentato per tutta la sua vita. Un’alienazione che, probabilmente, è parte integrante della storia dell’italianità trasferita oltre oceano, che lascia una cultura materna per il Paese delle libertà e dell’individualismo.

Teresa Fiore ha introdotto il suo lavoro concentrandosi sulla nuova italianità vista come prodotto Made in Italy, e riassumendo questo concetto attraverso la pubblicità del 2012 della 500 Fiat. Fiore ha spiegato che “the new italian” riprende lo stile tradizionale, aggiungendo però il senso di eccellenza e eleganza. Infatti, il continuum di migrazioni che non hanno mai smesso di ramificarsi, hanno reso l’italianità americana un fluido in perenne cambiamento. “Ovviamente non pensiamo a far festa, quando pensiamo alla grandissima diaspora che affligge l’Italia” e che ha reso il nostro Paese “un laboratorio di migrazione e mobilità”. Il numero degli italiani all’estero è, infatti, in crescita esponenziale – circa 5 milioni di italiani sono registrati all’AIRE – e, solo nel 2016, 125.000 persone sono espatriate.
I numeri stanno crescendo, e il fenomeno non può che diventare più complesso. “Ma come chiamiamo queste persone? Le categorie sono fluide”, ha detto Teresa Fiore, perchè parliamo di persone che hanno lasciato il Paese in differenti situazioni e che vogliono loro stesse essere chiamate in modi diversi. Ma la costante è che “ non hanno lasciato l’Italia per fare festa, l’hanno lasciata per lavorare”. Infatti, centinaia di donne/uomini/dal sud/dal nord se ne stanno andando a causa della “stabile instabilità”, che riguarda la sfera economica, politica e meritocratica; per lo stile di vita internazionale; e per la crescente mobilità, sempre più economica e facile. Se ne vanno, ma non ritornano, spezzando il cerchio della diaspora e costituendo una grande perdita da parte del Paese, che non rappresenta più, per chi se n’è andato, un’opzione di ritorno.

Anthony Tamburri, infine, si è focalizzato sulla rielaborazione delle etichette, e sul fatto che urge una maggior attenzione accademica rispetto a terminologia e tipi di terminologia che vadano oltre i concetti geografici e generazionali. Vari termini usati comunemente risultano problematici, come “Real Italians”, che è un termine esclusivo, o “Expat”. Quello che risulta dal lavoro di Tamburri è che c’è ancora molto da fare, ma che almeno, “il semplice fatto che la materia sia complessa, ci fa capire che è complessa anche la storia degli italiani in America”.