Una storia che profuma di terra. La vita umana legata a quella degli ulivi secolari. Una vicenda che contiene, come le regole della vita rurale, grandi battaglie e grande forza d’animo per mantenere la sopravvivenza e veder attecchire i propri frutti, nonostante la fatica.
È da qui inizia il percorso di Teodora e del suo rifugio che la lega a doppio filo al paese natio, la Puglia, e alla grande mela, in cui il suo progetto è decollato. A fare da trade union anche la malattia e poi la perdita del padre. L’abbiamo intervistata per scoprire come e perché questo fatto personale l’abbia ispirata a creare un documentario sui “giganti che camminano”.
Teodora è una filmmaker italiana e un’insegnante alla City University di New York. I suoi documentari sono stati proiettati al Doc Nyc e al Woodstock Film Festival. Recentemente Teodora ha lavorato come produttrice in collaborazione con organizzazioni non-profit quali UPROSE e Cooper Square Committee.
Da molti anni insegna media studies, produzione, ripresa e montaggio all’Hunter College, allo York College, al DCTV, e in una scuola superiore del Bronx. Nel 2017 Teodora ha ricevuto un Master in Belle Arti presso Hunter College.

Come sei arrivata a New York ?
“Mi sono laureata in Italia, all’università di Bari in Lettere e cultura teatrale e ho cominciato a lavorare come attrice per piccole produzioni con amici pugliesi, ma presto mi sono appassionata alla produzione e alla regia. Grazie a una borsa di studio della Regione Puglia Ho frequentato la Luiss business School che mi ha portato alla Rai, nella sede di New York, per uno stage estivo. Qui ho scoperto il mio amore per il documentario, che ho esplorato ingordamente in una città che mi offriva continui festival e rassegne dedicati al documentario d’autore. Dopo lo stage in Rai e un periodo di andirivieni dall’Italia, non avevo più dubbi che la natura multiculturale di New York sarebbe diventata il teatro in cui volevo esplorare il potenziale sociale e politico dell’arte del documentario”.
Cosa lega la storia che racconti nel documentario a te personalmente?
“Per me è stato un rito di passaggio importante: My Giants è un documentario di trenta minuti su due viaggi verso casa. Durante il primo, nel 2015, ho documentato la storia di Xylella fastidiosa, un batterio mortale responsabile della perdita di molti ulivi millenari della Puglia. Durante la seconda visita, nel 2016, ho assistito alla malattia di mio padre. Intrecciando le due storie – l’epidemia degli ulivi e il cancro di mio padre – ho creato un’istantanea di un momento di transizione nella mia vita, un momento in cui la malattia e’ diventata un’opportunità per riconnettermi con le mie radici”.
Veniamo al tuo documentario. Di cosa tratta?
“La Puglia, ha oltre 60 milioni di ulivi. Queste piante sono più piccole di una sequoia, un baobab o una quercia, ma i pugliesi li chiamano con orgoglio “i giganti che camminano”. In effetti, sono i secoli di cura che le persone hanno messo in questi alberi, scavando e rimuovendo regolarmente il nucleo morente del tronco, e ha permesso loro di sopravvivere per centinaia, a volte anche migliaia, di anni. Nel 2013, nel Salento, gli ulivi hanno iniziato ad ammalarsi, a seccare e morire. Quasi due anni dopo, gli scienziati locali hanno finalmente identificato il principale colpevole della malattia: Xylella fastidiosa. La mancanza di conoscenza del batterio e il timore che il contagio potesse alla fine colpire tutta l’Italia hanno scatenato una tempesta politica e mediatica. Il governo della Puglia ha approvato un piano di emergenza che ha suddiviso l’area interessata in quattro zone, dove sarebbero state abbattute le piante infette ma anche quelle potenzialmente infette. Gli ulivi rappresentano più di un patrimonio culturale per il popolo pugliese”.
Quando hai capito che questo Argomento doveva essere approfondito e reso noto anche fuori dalla Puglia?
“Nel 2015, la storia di Xylella fastidiosa e di quello che stava succedendo agli ulivi pugliesi ha catturato l’attenzione del New York Times, ed è così che la notizia dell’epidemia mi ha raggiunta a New York, dove stavo studiando documentario e media ad Hunter College. Quando sono tornata a casa per passare le vacanze estive con la mia famiglia nell’estate 2015, Xylella fastidiosa era sulla bocca di tutti. In Puglia, quasi tutte le famiglie possiedono un piccolo appezzamento di uliveti. La perdita degli antichi alberi giganti così emblematici della vita nel bacino del Mediterraneo, e intorno ai quali avevo giocato e sui quali mi erano state raccontate storie quando ero piccola, era inevitabilmente triste anche per me”.
Quale è stata la tua reazione?
“Ho iniziato a filmare gli ulivi dell’area che circondava la mia casa per documentare gli alberi che, se gli scienziati avessero avuto ragione, sarebbero presto spariti. Mentre ascoltavo gli attivisti e gli agricoltori sconvolti dalla risposta del governo, mi sono chiesta: “L‘abbattimento è l’unico modo per contenere la malattia?” “È vero che, una volta infettato un albero, non c’è modo che possa guarire?” Con queste domande in mente, ho attraversato le 500 miglia della mia terra natale, seguendo il percorso della malattia, nel tentativo di comprendere la storia mutevole e contraddittoria dell’epidemia degli ulivi e le sue conseguenze culturali ed economiche per gli abitanti della Puglia”.

Poi che è successo?
“Nel 2016, mentre ero a New York per il montaggio del mio documentario su Xylella fastidiosa, mi ha raggiunta la notizia di un’altra malattia – a mio padre era stato diagnosticato un cancro. Con il film degli ulivi e una valigia piena di paura e amore, sono tornata a casa. La notizia del cancro di mio papà mi ha colta completamente impreparata, ma alla fine ho trovato nella storia della malattia degli alberi l’opportunità per imparare qualcosa sulla malattia di mio padre e di venire a patti, anche se solo filosoficamente, con la paura di perderlo. Durante il montaggio del film, è diventato chiaro come la storia di Xylella fastidiosa e del cancro di mio padre si intrecciassero. I paralleli tra le due storie erano chiari su molti livelli e, sorprendentemente, ho trovato che c’erano delle lezioni da imparare da ciascuna storia. My Giants è diventato un film-essay personale che indaga le mie domande sul concetto di appartenenza, tempo e radici”.
Quale è ora la destinazione di My giants?
“Vorrei fosse distribuito nei piccoli e grandi festival, ma anche diffonderlo nelle scuole della Puglia come un progetto educativo e di sensibilizzazione.
My Giants” ha tirato fuori la parte più viscerale della mia pratica creativa, è stata per me un’opportunità per stabilire una connessione tra natura e essere umano che in qualche modo mi ero involontariamente lasciata alle spalle trasferendomi a New York, e per investigare i dubbi che inevitabilmente affiorano nel confrontarci con la natura precaria dei legami. Affrontare le domande che mi stanno più a cuore e razionalizzarle attraverso il linguaggio audiovisivo è quello che cerco di fare non solo come filmmaker, ma è anche il mio obiettivo quotidiano come insegnante a New York, e mi piacerebbe poterlo fare presto anche in Italia”.