Nel treno che da Milano centrale mi porta a Vicenza sono seduta nel posto 10A. Carrozza 7, posto finestrino come sempre. La signora che si alza per farmi passare è magra magra, anziana, curva su sé stessa. Sorride triste al mio grazie. È un lunedì di lavoro per tutti, di vacanza per me. Sono venuta a Milano per incontrare amici e per annusare l’aria, per vedere se la mia voglia di tornare in Italia fa a pugni o si abbraccia con la realtà. È come se cercassi qui sensazioni che vivo all’estero, una caccia al tesoro che non finisce mai.
I passi sono stanchi e sciolti sotto al sole, la gente non sorride, va da sola spesso imprecando al telefono con qualcuno. Io rischio di cadere dalle mie zeppe bianche, c’è un bel sole ma mi pare impanato di frustrazione. Chi l’ha indorato in questo modo di difficoltà? Chi l’ha passato in una pastella ottusa di mancanza di gestione del territorio? Chi l’ha fritto in una fissità che mi pare difficile da far evaporare. Sono tutte sensazioni, nessun fatto, è solo come quando mi chiedo ‘Io qui, ci vivrei?’.
Mentre fuori dalla stazione centrale dicono qualcuno abbia accoltellato un poliziotto, un altro poliziotto scortato da due militari sfila tra i binari. Nel vagone una famiglia dell’est mangia panini Burger King mentre il padre non sa come spostare dal corridoio una valigia gigante. Migranti quotidiani o forse in viaggio verso qualcuno. Come me che sono entrambi, una migrante quotidiana e costantemente in viaggio verso qualcuno. Perché è sempre qualcuno che mi fa spostare, prendere un aereo, un treno, cambiare casa. E mi piace pensare che sia così anche per gli altri.
Gli altri. Quelli arrivati nel nostro Paese nel 2016 sono stati 182mila persone, storie, percorsi. Gli italiani che hanno cercato fortuna all’estero salgono invece a 285mila. Ma in una festa si parla di più dei nuovi arrivati rispetto a chi se n’è appena andato. Percezioni sfasate che bivaccano e rimbalzano in teste, pensieri, proclami.
La guardo, la mia Italia, e ho sta malinconia in gola che assomiglia alla rabbia. Per il dovermi continuamente allontanare dalle persone con cui vorrei stare. O per il dovermi costantemente allontanare dall’idea accogliente che ho di casa mia.
Mentre la nonnina di fianco a me mangia una Fiesta nel suo golfino blu, il controllore si rivolge ad un ragazzo nero con una maglia rossa appena salito in treno con un: ‘E tu? Tu ce l’hai il biglietto?’ E mi viene rabbia quando vedo i suoi occhi abbassarsi, fissare il pavimento mentre dice ‘sì’. Che mi verrebbe da andare là e dirgli ‘Su quella testa, guardalo negli occhi il controllore. Digli ‘sì’ due volte in faccia.’
E mi chiedo se sia vera o se sia solo una mia sensazione liquida questa percezione di pudica disperazione, di essere seduta in un campo minato di una guerra tra poveri, dove a me nessuno chiede se ho il biglietto perché porto una borsa Michael Kors tarocca. O forse semplicemente perché sono troppo bianca.
Lara Lago, nata a Bassano del Grappa, giornalista collaboratrice de La Voce di New York fin dal 2013, vive ad Amsterdam dove lavora per Zoomin Tv.