
Diciassette sculture e quattro stele con 30 mila targhe di porfido della Patagonia per ricordare le vittime del terrorismo di Stato si alzano vicino al Rio de la Plata, il grande fiume di Buenos Aires, dove molte persone sequestrate sono state gettate dagli aerei delle Forze Armate, al potere in Argentina tra il 1976 e il 1983.
L’austero “Parque de la Memoria” non è soltanto un grido di infinito dolore, ma anche un’appello alla vita, un “memorial” del genocidio e allo stesso tempo un “mai più” alla dittatura, le ingiustizie e l’impunità.
E il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, arrivato sabato nella capitale argentina, nonostante la forte pioggia autunnale battente in città, ha voluto percorrere a piedi il Parque, dove ha incontrato due mamme italiane, Vera Jarach e Angela “Lita” Boitano, e altri familiari dei desaparecidos, tra i quali chi scrive queste righe e una bambina rapita e adottata (o meglio dire, rubata!) da un militare e ritrovata anni dopo, Victoria Montenegro.

“Dovete avere fiducia” ha detto Mattarella a Boitano, mamma di Miguel Angel e Adriana Silvia sequestrati nel 1976 e nel 1977, rispettivamente.
“E’ tremendo, ma dopo 40 anni di lotta chiedendo verità e giustizia ora stiamo tornando indietro e dobbiamo ricominciare da capo per fermare la nuova impunità” ha sottolineato Lita, nata nel 1931 ma ancora disposta a denunciare “il 2×1”, una forzatura legale per accelerare la liberazione dei militari al centro delle polemiche in questi giorni in Argentina.
Infatti, il “2×1” è una sentenza della Corte Suprema secondo la quale i militari condannati in primo grado e incarcerati per sequestrare, torturare, assassinare e in alcuni casi rubare i bambini nati nei campi di concentramento, possono ridurre alla metà gli anni di prigionia.

“La forza della verità non si ferma” ha puntualizzato Mattarella mentre prendeva le mani di Lita affermando che le mamme sempre hanno “fatto un lavoro molto importante”.

Vera Jarach, nata a Milano nel 1928 e madre di Franca “che aveva 18 anni al momento del sequestro”, ha raccontato brevemente al presidente la tragedia della sua famiglia ebrea, emigrata a Buenos Aires sotto il regime di Mussolini. “Mio nonno materno, che non aveva voluto lasciare l’Italia è stato deportato ad Auschwitz e non è mai tornato”, spiega e aggiunge: “E poi… la mia unica figlia…”.
Subito dopo, ribadendo la necessità di non perdere la fiducia, Mattarella, Lita, Vera e gli altri familiari ci siamo avvicinati al fiume per rendere un omaggio floreale alle vittime della dittatura. E siccome a pochi metri di distanza, sull’acqua, una scultura ricorda il quattordicenne Pablo Miguez, giovanissima vittima del terrorismo di stato, il presidente italiano ha detto al gruppo: “Allora questo fiore è per lui”.

Poche parole, una ventina di minuti e abbracci. Sufficienti per Lita e Vera che hanno chiesto a Mattarella di parlare con il presidente argentino Mauricio Macri “sul pericolo di liberare i militari”.
Da non molto lontano lo sguardo di uno scomparso continua a chiedere Memoria, Verità e Giustizia. La scultura si intitola “30.000”.
Dora Salas, nata a Buenos Aires, di origine calabrese, è stata imprigionata (“desaparecida”) insieme al suo compagno durante la dittatura militare in Argentina. Liberata dal campo di concentramento cominciò subito la lotta in difesa dei Diritti Umani e fu nuovamente minacciata dal regime. Decise di cercare una vita più serena in Italia, dove trovò lavoro nella agenzia di stampa IPS di Roma. Dopo una decina di anni ritornò a Buenos Aires, lavorando all’Università di Scienze Sociali e all’agenzia Ansa, senza smettere mai di cercare giustizia per i 30 mila scomparsi e assassinati dai generali, tra i quali il suo compagno.