Padova e New York, due città apparentemente lontane si incontrano nell’obiettivo e negli scatti di Francesca Magnani, giornalista e fotografa padovana, da anni nella Grande Mela, dove insegna italiano e yoga e collabora con diverse riviste.
Venti anni raccontati in quaranta fotografie in mostra a Padova alla Galleria Samonà fino al 12 Marzo e presto in un catalogo da realizzare grazie alla campagna Kisckstarter lanciata sul web. Qui, Street Stories tra Padova e New York, sono racconti di vita in scatti. Storie che nascono nelle strade della Big Apple e in quelle della città veneta. Parallellisimi, sovrapposizioni, accostamenti, integrazioni, legati insieme da un filo conduttore: la strada e le sue storie. Quelle che nascono ad Union Square o Piazza della Frutta, entramebe fonte di ispirazione privilegiata di Francesca.
Da quando abita a New York racconta ciò che la commuove, ci racconta, privilegiando le storie di chi in strada cerca un riscatto. Parla della sua New York e di cosa le manca di Padova. Ai turisti che vengono nella Grande Mela dice “credo nell’energia della strada e della subway” e consiglia di perdersi nelle strade della city.
La tua ultima mostra, mette insieme le storie di strada di NY e Padova. Cosa hai trovato in comune tra le due città così da poterle legare insieme?

“Per la mostra ho usato il filo conduttore della strada, che per uno street photographer è già in sé una forma di stage. Nella strada ho guardato alle performance vere e proprie (danza, acrobati, processioni religiose), ma pure a quello che, quando vivi a New York e torni, vedi con occhi diversi, tipo il mercato, la piazza, i portici. Insomma quello che non c’è nell’altro posto. Vivere a New York ti educa e abitua a una nuova bellezza. La mostra viene da lontano. Già nel 2002 era apparsa in nuce alla New York University, si chiamava Duplicittà (il copyright del titolo è di Stefano Albertini). A quei tempi ero un’accademica che faceva il dottorato e mi sentivo così: mi pareva di avere in the back of my mind Padova quando ero a New York e viceversa, come se uno, all’arrivo in un posto cambiasse schermo o visore. Ho sempre vissuto da sola quindi ero l’unica “testimone” di me stessa qui o lì, e nella mostra volevo esprimere quello. Quindici anni dopo, eccoci qui. Anni fa ho trovato ispirazione in un performer che usa Union Square come palcoscenico, Tylon. Ho migliaia di foto di lui e conosco a memoria il suo show. In seguito ho incontrato un gruppo di dancer a cui mi sono sono molto avvicinata e li ho seguiti giornalmente per più di un anno conoscendoli a fondo. Stare con queste persone mi aveva dato la voglia di mostrare aspetti della vita newyorchese che mi parevano urgenti e importanti, e così ero venuta qui, a Padova, a proporre una mostra su di loro. Nella riunione con il Comune invece l’assessore mi disse: ‘Eh, ma bisognerebbe trovare un legame con Padova’. A loro forse sembrava arduo avvicinare due contesti apparentemente così diversi ma… immagina quando ho sentito quelle parole! Avevo tutta la mostra già in testa. Ecco perché per me l’accostamento, che a un altro può parere peregrino o forzato o bizzarro, per me è naturale e ovvio. Ho riunito tutti fili delle mie storie ed esperienze nel titolo Qui che è la scritta per terra a delimitare lo spazio della performance e anche la parola chiave della mindfulness della West Coast ‘wherever you go, there you are’, un’eco contemporanea e costruttiva di rimando al fatalismo oraziano del ‘chi attraversa il mare cambia cielo non animo’. Ora no, non è più così, non c’è più duplicità, il ‘qui’ è il famoso punctum, il famoso kairos, il momento opportuno, come è anche la concentrazione dell’acrobata o il giro a spalla del Santo. Qui troviamo Piazza della Frutta e Union Square, che simbolicamente racchiude tutto, unica location newyorkese che, col farmers market dei produttori che vengono da Upstate e gli incontri estivi, ricorda la piazza italiana. Tra Padova e New York diventa la polarità di due luoghi fisici ma anche due luoghi della mente e stati d’animo. Le foto sono affiancate in un’unione che non ha ambizione di rigore filologico ma è dettata da quell’emozione dell’autore che si accende al momento in cui i due contesti affrontati vengono posti in parallelo e in induzione — dalla suggestione cromatica o dei ricordi, oppure dall’identità di soggetto, o di posizione del corpo, o di location — e che introduce il piacere di una più approfondita forma di conoscenza che supera immediatamente la chiara presenza dello scatto singolo; le immagini comunicano tra loro, e noi con loro. Ogni immagine è una storia, completa in sé, nel dialogo muto tra quella che la precede e la segue, ma anche proprio pretesto di un racconto vero e proprio, che nel caso di una quindicina di immagini esposte è stato realmente pubblicate sulla stampa nazionale. Così facendo ho sempre tenuto ‘un ponte’ ideale e di confronto con l’Italia, con la sua lingua, con le edicole del mio paese attraverso gli articoli che nel corso degli anni ho pubblicato”.

Sei a New York dal 1997 e da allora fotografi e racconti una città che ogni giorno qualcuno vuole raccontare. Che New York è quella che tu hai deciso di raccontare?
“Da quando abito a New York io racconto quello che mi muove e mi commuove. È un’esigenza vitale e sempre, quando mi imbatto in una persona e sento che c’è una storia, provo in tutti i modi a pubblicarla. Il criterio quindi è per eccellenza soggettivo e non segue una linea di ricerca predefinita. Hai detto che la street dance a NY ti ha ispirato e cambiato il modo in cui tu guardi e vivi la città. In che modo? Perché con niente, e per niente intendo un pezzo di gesso e un contenitore per le donation queste persone creano un palcoscenico e offrono uno spettacolo di bellezza e pathos, in luoghi in cui di solito si tira avanti con fretta, la piattaforma gelida nel mezzanine della subway, le mattonelle di cemento roventi di sole in un giorno d’agosto a Union Square. Alcuni di loro hanno storie estreme ‘di strada’ di quartieri in cui vengono discriminati e arrestati di routine e hanno trovato un modo per esprimersi ispirando lo spettatore e comunicando in modo chiaro e inequivocabile,
e trasformare lo spazio della strada, nell’ambito del quale vige il pregiudizio che li vorrebbe destinati a malavita e crimine in un’occasione edificante e sublime, dionisiaca”.

Cosa rende, secondo te, NY una città che ancora nessuna si stanca di fotografare e raccontare?
“Credo proprio l’energia della strada e della subway. È davvero uno spettacolo continuo, sempre cangiante e in movimento. Ci sono persone che magari vengono dall’Italia ogni anno in visita e non hanno mai camminato da soli per strada. È una dimensione unica, e chi si vanta di viaggiare sempre in taxi si perde moltissimo!”
Se dovessi scegliere una tua foto che sintetizzi in uno scatto l’anima della grande mela, quale sceglieresti?
“Questa [immagine sotto], perché c’è la città vista da me, il dentro e il fuori, la terra e il cielo… e la linea Q!”.

Fotografa e giornalista, quale la differenza tra i due linguaggi e quale dei due prediligi?
“Per me sono la stessa cosa perché mi interessa raccontare e mostrare una mia emozione nel momento in cui quello che incontro mi tocca. Mi piacciono sia le immagini che parlano da sole che l’interazione testo-foto che dà modo di approfondire e apprezzare su diversi strati di significato. In questa mostra ad esempio volevo che fosse chiaro che le foto erano state pretesto o scintilla per un articolo ma ho deciso, invece di appesantire il percorso con didascalie molto narrative, di non usare le didascalie sotto le foto, bensì a parte, in un handout con cui volendo si fa il giro della mostra. Nei prossimi giorni sto cercando uno sponsor per mettere a punto anche un catalogo. Anzi, se a qualcuno interessa associarsi a me in questa impresa, che mi contatti”.
I luoghi che ami fotografare, vivere, raccontare di New York?
“Molti! Amo molto camminare, quindi comincio col ponte di Williamsburg che percorro ogni giorno e l’arrivo su Delancey con il Lower East Side arrivando da Brooklyn o Dumbo, arrivando da Manhattan, una delle fermate delle subway che prediligo e con la camminata fino alla fine della passeggiata, Tompkins Square Park e i community gardens dell’East Village, Bryant Park, la passeggiata sul West Side, Coney Island in ogni stagione”.
La tua Padova, l’Italia. Cosa ti manca del tuo paese?
“Nella pratica dell’Italia mi manca tutto, dal cibo al rapporto con le persone, dalle copertine dei libri in libreria, agli incontri casuali, a sentire la lingua per strada. Internamente quello che mi manca io lo esprimo e lo tengo vivo nelle immagini che scatto, non importa dove mi trovo e la mancanza la risolvo in altro modo, sviluppando affinità per altre cose che ho a portata di mano nel luogo in cui mi trovo. La mancanza inoltre fa sì che quando torno vedo le cose familiari con altri occhi e le apprezzo in un modo diverso”.

Come cambia oggi il linguaggio fotografico?
“Cambia con l’educazione e la cultura che puoi farti con l’accesso a Internet e ai social, una cosa che persone più giovani danno per scontata. Ogni fotografo ha un suo percorso e un suo ‘fuoco’ che alimenta che per un altro magari è inspiegabile. Il mio rapporto con la macchina ha accompagnato il mio incontro e conoscenza con New York in un tempo in cui le email si usavano poco e per chiamare in Italia facevi la collect call dai telefoni pubblici. Il rapporto con la fotografia si è svolto partendo da negativi e camera oscura, per i primi dieci anni, a un apparecchio digitale a partire dal 2008. Mano a mano che conoscevo la città ho imparato a girare sempre con la macchina.

Anche la dimensione della camera oscura è molto particolare, solitaria e introspettiva, manuale, artigianale, e con una dose di magia: l’immagine che riappare sulla carta e tu che la ottieni esattamente come la vuoi in un tempo lungo, respirando l’odore acre dei prodotti chimici, girando sempre con una scatola di foto. Molto diverso dai mille scatti che puoi permetterti col digitale. Ultimamente poi, e questa è stata la mia ultima fase, ho avuto modo di provare un’altra macchina e… dopo quella non sono più riuscita a riprendere in mano la mia Canon. Si chiama Leica Q e spero di riuscire prima a poi a procurarmela! Quindi a proposito: per saperne di più ed essere aggiornati sui cambiamenti, potete seguirmi su Instagram @magnanina”.