In questi ultimi tempi in cui gli occhi del mondo intero sono stati a lungo puntati sul paese a stelle e strisce, a causa delle elezioni presidenziali, ho ripensato alla mia prima volta negli States, avvenuta più di mezzo secolo fa, quando avevo appena compiuto sedici anni. Nel mese di settembre del 1967 mi recai infatti per la prima volta in America.A bordo di quel Douglas DC-8 Alitalia diretto all’aeroporto Kennedy di New York, c’erano una sessantina di italiani che si recavano ad assistere ad un incontro di boxe.
Non che al sottoscritto e a mio padre interessasse molto la boxe, anzi, a dire la verità, eravamo attirati dall’arte pugilistica in misura meno di zero, ma quella era un’occasione per andare negli Stati Uniti e non spendere cifre astronomiche. Era insomma uno dei primissimi voli charter organizzati per eventi sportivi e comprendeva un soggiorno di una settimana a New York più visite guidate a Washington e alle cascate del Niagara. I due pugili, per cui tutto questo è stato organizzato, erano Nino Benvenuti, biondo e simpatico triestino che solo cinque mesi prima era diventato campione del mondo dei pesi medi, e l’americano Emile Griffith che, avendo appunto perso la corona nel mese di aprile, se la voleva subito riconquistare. L’incontro si sarebbe svolto allo Shea Stadium, il 29 settembre.
Il nostro rumoroso gruppo approdò nello storico Hotel New Yorker, costruito nel 1930 in puro stile Art Deco. L’albergo aveva più di mille stanze ed era situato in Eighth Avenue, vicino a Pennsylvania Station. Negli anni precedenti erano stati spesso ospiti di questo celebre hotel molte rinomate star della musica, del cinema e della politica come, ad esempio, Benny Goodman, Tommy Dorsey, Spencer Tracy, Joan Crawford e perfino Fidel Castro. E adesso toccava a quei sessanta rumorosi clienti italiani. Per un ragazzetto romano di sedici anni arrivare a New York a fine anni Sessanta non era proprio come andare in vacanza a Ladispoli. Essere lì era davvero come entrare in un altro mondo, non dico di marziani, ma quasi.
La mattina seguente, dopo aver fatto una fantastica colazione a base di cibi che non conoscevo affatto come ad esempio i muffin ai mirtilli, i pancakes con lo sciroppo d’acero, i cookies e le ciambelle varie, uscii da solo dal New Yorker e mi misi a passeggiare lungo l’Ottava avenue.
Camminavo a bocca aperta, affascinato, perché tutto lì era diverso. Era diversa l’altezza dei palazzi, con quei grattacieli spettacolari che sfioravano il cielo e andavano a fare il solletico alle nuvole, era diversa la gente dai vari colori e dalle differenti razze, erano diversi perfino gli odori del cibo per le strade, con gli hot dog cucinati sulle bancarelle ambulanti e cosparsi di quello strano liquido denso che mi sembrava pomodoro e che invece si chiamava ketchup. E poi era diversa la lunghezza delle strade. La mia via, a Roma, era lunga circa cinquanta metri, dal portone di casa fino alla fontanella all’angolo della strada, ma quell’Ottava avenue sembrava proprio non avere mai fine. Pensando di essere stato sfortunato e di aver trovato per caso la via più lunga di Manhattan, girai verso una nuova strada che si rivelò essere però ancora più lunga dell’altra e poi girai ancora e ancora, ma le vie sembravano essere tutte identiche e tutte lunghissime, con la sola differenza che alcune si chiamavano avenue le altre street.
Il risultato fu che finii per perdermi, non sapevo più dove mi trovavo né come fare a tornare. Disperato, provai allora a chiedere ad un gigantesco poliziotto di colore ma il mio inglese scolastico era talmente scarso che non riuscii assolutamente a farmi capire. Ripensai allora con una certa rabbia a tutte le partite di calcio che mi ero fatto durante le ore in cui sarei dovuto essere a lezione e anche al mio professore d’inglese d’origine ciociara e al suo slang yankee vagamente frusinate. Così tirai subito fuori dal taschino una penna biro, iniziando a scrivere su un foglietto il nome del mio albergo. Allora il poliziotto, incredibilmente commosso dalla totale incapacità di quel goffo ragazzetto italiano, mi scortò a piedi fin dentro la hall e mi consegnò perentoriamente al receptionist di turno.
Nonostante la pessima figura ottenuta, il giorno seguente volli comunque riprovarci. Mi armai di una dettagliata mappa della zona, di un piccolo vocabolarietto e di nuovo sprofondai nella città. Girovagai senza meta per un po’, con gli occhi spaesati e l’espressione stupita, poi entrai in un negozio di dischi. Quello che in genere frequentavo a Roma era grande più o meno come la mia stanza da letto. Questo qui invece era gigantesco, sembrava il salone del Titanic. C’era così tanto vinile in giro che sembrava di stare nella casa generale di produzione del vinile e poi c’erano anche i dischi usati e un long playing costava solo mezzo dollaro. Così comprai un sacco di bei dischi di Otis Redding, Aretha Franklin, Temptations, Beach Boys, Elvis Presley e anche di alcuni gruppi americani da noi pressoché sconosciuti come i Kinks, i Searchers, gli Herman Hermits, i Turtles e i Monkees.
Una sera il nostro gruppo di chiassosi turisti italiani si recò a cena in uno stranissimo ristorante completamente automatico. Ricordo che c’era una parete intera con tutta una serie di sportelli e bottoni. Su ogni sportello era stampata la fotografia a colori del piatto da ordinare, con evidenziati il prezzo e la quantità.
Infilammo i soldi in una fessura, prememmo il pulsante e tornammo al tavolo, ad aspettare. Dopo pochi minuti, con nostra grande meraviglia, lo sportello si spalancò ed ecco pronto il nostro bel piatto fumante. In tutta la sera non vedemmo in sala un solo cameriere. Fu un’avventura davvero incredibile per noi, abituati alle rassicuranti osterie dei maccheroncini alla gricia o dei rigatoni con la pajata, con l’oste che raccontava le barzellette zozze, tra una portata e l’altra. Era stato quello il primo impatto con l’automazione dei servizi. Ad alcuni ricordò quel famoso film di Charlie Chaplin, Tempi Moderni, in cui il protagonista lavorava alla catena di montaggio e, improvvisamente, perdeva il ritmo, andava fuori giri e combinava colossali guai. L’automatismo, pensammo tutti, non era cosa per noi italiani. In sala non si poteva fumare, cosa strana anche questa perché da noi in Italia allora si poteva fumare dappertutto, perfino al cinema, a teatro e sui mezzi pubblici. Così molti uscirono a farsi una sigaretta e anche io accompagnai fuori mio padre.
Sul marciapiede ci imbattemmo in un ragazzetto della mia età che indossava una camice bianco e un cappelletto da cuoco. Stava fumando anche lui la sua bella Camel. “Siete italiani?”, ci domandò, felice di ritrovare dei connazionali. E poi iniziò a raccontarci la sua storia. Proveniva da Torre del Greco, vicino Napoli e aveva dovuto lasciare la sua famiglia e anche la sua fidanzatina, Concetta, di cui era tanto innamorato. Ma suo padre era stato irremovibile: “Vai a trovare lo zio Mario a Nuova York, che qui si fa la fame!”, gli aveva detto.
Il giorno della partenza, tutti i suoi parenti lo avevano accompagnato al porto di Napoli, a prendere la nave. Aveva con sé due grandi valigie e pure un sacco di lacrime, ma nessun fazzoletto per asciugarle. “Ecco, Salvatore”, gli aveva detto Concetta, sbucata chissà da dove, offrendogli il suo piccolo fazzoletto bianco, ancora profumato di bucato. “Ce l’ho sempre con me, anche adesso quel fazzoletto — aveva continuato a raccontare Salvatore — Lo porto in tasca, mentre lavo i piatti nella cucina del ristorante, oppure quando torno a dormire in quell’appartamento del South Bronx che divido con altri quattro ragazzi italiani”.
“Ma poi ci torni in Italia, Salvato’?”, gli avevo domandato ingenuamente io alla fine. E lui si era girato a guardarmi con uno sguardo molto triste, senza rispondere, senza dire niente.