Quando si dice New York tutti immaginano la metropoli sfavillante, i taxi che sfrecciano per le Avenue, i grattacieli su cui lo sguardo si perde alla ricerca della cima. Eppure basta spostarsi a poco più di un’ora dalla città per essere catapultati in una dimensione così pacifica e bucolica da farti pensare che forse hai sbagliato strada, o Stato. E invece ci troviamo proprio nello Stato di New York, in viaggio verso Millbrook, cittadina a pochi chilometri da Poughkeepsie, tra New York e Albany, dove scorre lo Hudson River.
Lo scenario fuori dal finestrino è affascinante: vigneti, boschi e meleti, di cui lo Stato di New York è pieno. Qualche fattoria e casette in legno lasciano immaginare che il tempo qui si sia fermato a un centinaio di anni fa. Tutto è possibile perché il nostro, in realtà, è un viaggio nel passato, verso quel tempo in cui a Millbrook arrivarono tantissimi immigrati, specialmente irlandesi e, ovviamente, italiani.
Oggi a Millbrook vivono circa 1.500 abitanti e sarebbe un villaggio simile a molti altri adiacenti se i suoi abitanti non avessero deciso di valorizzare la storia di questo luogo e delle persone che lo hanno attraversato, istituendo nel 2014 il Museum in the Street, un museo a cielo aperto che racconta la storia dell’immigrazione all’interno di questa piccola comunità.
Una comunità in cui, leggendo e passeggiando per Franklin Ave, la strada principale, scopro arrivarono, nei primi del Novecento, molti miei concittadini. Uno di questi, Alberto, “Al” De Bonis, nipote di italiani o meglio “di fondani”, come ci tiene a precisare, gestisce una piccola bottega assieme a sua moglie Brenda, fondana anche lei, dove si possono trovare tutte le delizie del Bel Paese, dal caffè al limoncello. Sono loro a mostrarmi la mappa del Museo: 29 pannelli disseminati lungo le strade dove poter leggere alcune particolarità di questo piccolo villaggio. Per non dimenticare il passato e trasmettere il senso di identità storica alle future generazioni.
Non si scherza con le radici: non appena Al viene a sapere della mia provenienza, tira su la saracinesca della sua bottega, solitamente aperta solo nei weekend, per mostrarmi i suoi prodotti, molto turistici e talvolta anche un tantino kitsch, comunque poco interessanti per il visitatore italiano. Ma non qui, non per loro che il mito dell’Italia e dell’hometown se lo tramandano di padre in figlio, da quel lontano 1902, quando la nave Archimede, salpata da Napoli, approdò a New York. Loro la Grande Mela nemmeno la guardarono: destinazione Millbrook, per raggiungere gli altri compaesani che nelle lettere inviate a casa consigliavano ad amici e parenti di venire a toccare con mano il sogno americano.
Questo museo in strada non è l’unico negli Stati Uniti: se ne trovano nel Connecticut come in Virginia. Ma quello di Millbrook è l’unico ad avere i pannelli con le didascalie in doppia lingua – inglese ed italiano – per rispetto e in omaggio alla numerosa comunità di italiani che vennero qui come manovali, agricoltori, scalpellini, pastori, facendo di Millbrook un villaggio fiorente per molti anni.
“Spero che questo progetto porti ad un maggiore interesse nei confronti della nostra lingua”, dice Barbara Pierce, giornalista e co-chair del Museo. L’italiano qui non lo conosce e parla praticamente quasi più nessuno, ma ogni giovedì si tiene un corso di lingua, molto frequentato dagli abitanti. Che vanno in visita in Italia almeno una volta l’anno per dare linfa vitale alle loro radici. “C’è un vecchio detto – dice Noreen Bartelomucci che vive 6 mesi in Italia e gli altri 6 a Millbrook e che è stata impegnata in prima persona nello sviluppo del progetto del museo – che fa: quello che il figlio vuole dimenticare il nipote vuole ricordare”.
E così eccoli i 29 pannelli che raccontano più di cento anni di storia, di memorie, di ricordi. Come l’arrivo della ferrovia, l’incendio del 1916 che distrusse buona parte del villaggio, l’istituzione della prima Public Library, i santi portati in processione da oltreoceano assieme alle preghiere e alle speranze, la gelate ria all’incrocio principale della città, che faceva la banana split più buona di tutti per soli 10 centesimi. Settant’anni fa.
Il Museum in the Street nasce da un’idea di Barbara Pierce e di suo marito Charlie, ma la collaborazione è stata di tutta la cittadinanza che per dieci mesi e più ha lavorato assieme incollando i pezzi che oggi sono riassunti nei pannelli esplicativi. Troppo piccoli e troppo pochi per contenere tutto quello che quelle mura e quelle strade hanno visto.