A New York City vive la comunità di italoamericani più numerosa degli Stati Uniti: così esordisce la pagina Wikipedia dedicata a “Italian Americans in New York”. Molti di loro, reali o immaginari che siano, abitano gli schermi cinematografici americani di tutti i tempi, a partire da quel leggendario Rudolph Valentino fino ai meravigliosi Al Pacino, Joe Pesci, Danny De Vito, Stanley Tucci, John Turturro, Susan Sarandon, James Gandolfini, Chazz Palminteri ma anche John Travolta, Lorreaine Bracco, Joe Mantegna, Annabella Sciorra, Ray Liotta e il più meraviglioso di tutti, Robert De Niro: perché non solo è un grande attore (va bene, negli ultimi anni si è un po’ seduto in poltrona, ma insomma, il suo lo ha fatto) ma anche perché in numerosi film ha interpretato l’italoamericano per eccellenza (pur essendo in verità italoamericano solo per un quarto, italoamericano era infatti solo il nonno paterno), dando vita a quel modello di italoamericano che si è imposto nel cinema e nell’immaginario. De Niro diventa l’italoamericano a partire da The Gang That Couldn’t Shoot Straight, un mafia comedy che affonda le sue radici nel cuore di Little Italy, passando per lo straordinario The Goodfellas (Quei bravi ragazzi, di Martin Scorsese), fino all’interpretazione di Vito Corleone da giovane in The Godfather Part II (Il Padrino Parte II) di Francis Ford Coppola, che gli valse l’Oscar come miglior attore nel 1975. Una curiosità: Marlon Brando e Robert De Niro sono gli unici due attori ad aver vinto l’Oscar interpretando lo stesso ruolo, quello di Vito Corleone appunto, Brando nel 1973 e De Niro due anni dopo.
Quando si parla di italoamericani, il cinema non manca mai di creare accesi confronti; da sempre si scatenano battaglie feroci nelle comunità italoamericane che contestano la costante associazione con i mafiosi (o criminali in generale), avallata dal cinema fin dalle origini. Strali sono stati gettati contro The Godfather (e contro il romanzo di Mario Puzo da cui è tratto) sin dalla sua uscita, colpevole di aver imposto il cliché dell’italoamericano mafioso assurgendolo a mito, tanto più che dalla sua uscita nelle sale nel 1972 sono stati prodotti quasi 300 film che ritraggono gli italoamericani come criminali (la fonte è l’Italic Institute of America). Sono dati che fanno pensare, come fa pensare, e molto, il ruolo che il cinema e i media in generale hanno nella creazione degli stereotipi e nella diffusione di luoghi comuni, e senza alcun dubbio la storia della rappresentazione degli italoamericani nel cinema e poi in televisione è complessa, ha molte luci e molte ombre.
Rapporto intenso e prolifico ma conflittuale quindi, quello fra italoamericani e cinema, eppure sono molti i grandi film, i grandi registi e grandi attori di origini italiane che hanno legato il loro nome a New York – e in particolare a Little Italy – quella complicata, affascinante e dolente New York italoamericana che è entrata nei cinema e nelle case di tutto il mondo attraverso alcuni fra i film più belli della storia del cinema. E, piaccia o meno, The Godfather è uno di questi.
Francis Ford Coppola è venuto a New York per raccontare la sua saga, e sebbene i tre film del Padrino siano stati girati non solo a New York, è qui che la vicenda si svolge principalmente, sono le strade di New York a fare da sfondo alla saga di Vito Corleone e della sua famiglia, ed è Little Italy che richiamiamo alla mente quando ricordiamo riunioni e incontri in sale fumose e ristoranti italiani, regolamenti di conti, giochi di potere, ammazzamenti, primo fra tutti quello di Marlon Brando (Vito Corleone), avvenuto davanti all’impresa di famiglia, la Genco Olive Oil, in verità il Mietz Building situato al 128 di Mott Street. Oggi a quell’indirizzo c’è un market cinese, in giro non si vedono uomini italiani in doppiopetto, niente panni stesi ad asciugare, niente frutta in vendita in bella mostra lungo i marciapiedi, rimane solo qualche ristorante dal nome italiano e qualche vecchio barbiere con le foto della vecchia Little Italy in vetrina. Non molto è rimasto di quelle strade e di quei luoghi, come tutta la città anche Little Italy è cambiata, soprattutto Little Italy è cambiata: oggi, più che altro, è Chinatown.

Diversi angoli e palazzi di questo quadrilatero del Lower East Side di New York sono stati il set del Padrino: Old Saint Patrick Cathedral, dove sono stati girati gli interni della scena del battesimo usando, a quanto pare, un vero vescovo e alcuni dei Coppola fra le comparse; e qui è stata anche girata la scena in cui Michael Corleone (Al Pacino) viene ordinato cavaliere dell’Order of St. Sebastian the Martyr. Accanto alla chiesa si trova il cimitero, ormai quasi dimenticato, stretto fra palazzi e ringhiere, che ospitò una scena di Mean Streets di Martin Scorsese. A Little Italy è rimasto ancora il Mulberry Bar che, oltre al Padrino (è in questo locale, chiamato Marechiaro, che, nel terzo episodio della saga, si vedono Andy Garcia e Sofia Coppola), ha visto l’incontro tra Johnny Depp e Al Pacino in Donnie Brasco (film del 1997 diretto Da Mike Newell e basato sulla vera storia di Joe Pistone, agente dell’FBI infiltrato nella mafia newyorchese, e della sua “amicizia” con Lefty Ruggiero, soldato della famiglia Bonanno) e più di recente James Gandolfini in visita d’affari in città insieme ai suoi compari in qualche episodio di The Sopranos (fortunata serie il cui autore è lo sceneggiatore e produttore italoamericano David Chase, nato Davide De Cesare), forse la miglior serie televisiva di tutti i tempi. E poi l’intera Elizabeth Street, cuore di Little Italy, strada in cui è nato e cresciuto il più famoso cantore di questo quartiere e uno dei più grandi registi americani, Martin Scorsese, rendendola il set di molti suoi film, e in questa strada si tiene anche la festa di San Gennaro dove viene ucciso Joe Mantegna/Joey Zasa in The Godfather Part III.
E infine Umberto’s, ristorante che in passato ha legato indissolubilmente il suo nome al cinema italoamericano per un fatto di sangue, in cui si intrecciano realtà e finzione, persone e personaggi, in quella che è diventata una piccola grande storia newyorchese con tutto il sapore della Little Italy di una volta, quella vera e quella immaginata. Umberto Ianniello aprì il suo ristorante al 129 di Mulberry Street, nel febbraio del 1972. Da subito si sapeva che il ristorante era il quartier generale di Matthew Ianniello, detto Matty The Horse, figlio di Umberto e noto capomafia del tempo. E proprio qui, nell’aprile dello stesso anno, venne ucciso il famoso gangster Joe Gallo: Gallo si trovava lì a pranzo con la famiglia, e colpito più volte fece in tempo a trascinarsi in strada, dove morì sotto gli occhi di tutti. Noto come “Crazy Joe” e “Joe The Blond”, già prima della sua morte aveva ispirato film e romanzi: James Breslin nel 1969 scrisse The Gang That Couldn’t Shoot Straight, che divenne poi un film nel 1971 (come già detto, uno dei primi lungometraggi interpretati da Robert De Niro), con l’amatissimo Jerry Orbach (Law and Order) nel ruolo di Joe Gallo – Orbach e Gallo si erano effettivamente conosciuti in occasione delle riprese del film. Ma il boss della mafia è stato raccontato anche da Carlo Lizzani nel suo Crazy Joe, poliziesco del 1974 girato proprio a Little Italy.
Erano altri tempi. Dopo anni in cui è rimasto chiuso, Umberto’s ha riaperto poco più in là mentre al suo posto c’è un altro ristorante, Da Gennaro. Le cose cambiano, ma cinema e immaginazione di milioni di turisti che ogni anno arrivano a curiosare in queste strade restano immutati.

I wise guys dello schermo rimangono sullo schermo e se è vero, con buona pace di tutti, che a Little Italy ci sono stati, che qui hanno vissuto, mangiato, fatto affari e a volte sparato, nella realtà come al cinema, è vero anche che i villain (i cattivi) nei film come nei libri funzionano bene, perché le battute ciniche di un film se efficaci entrano nel linguaggio comune, perché se le qualità squisitamente cinematografiche di un film lo fanno diventare un capolavoro al tempo stesso contribuiscono ad imprimerlo nella memoria.
Altra storia sono le donne italoamericane ritratte al cinema, pressoché inesistenti, poco più che casalinghe, se fortunate, amanti o psicoanaliste; sono pochissimi i personaggi femminili italoamericani ad avere la giusta attenzione e profondità, nessun ruolo veramente memorabile, e questo è in gran parte legato purtroppo anche a una certa cultura (ma non è la giusta definizione) che il cinema ha ben colto e sfruttato.
La verità è che mafia e mafiosi hanno fascino solo nel cinema americano, la realtà è ben altra. È una questione complessa, soprattutto per i milioni di italoamericani che, come molti altri, sono arrivati qui in anni difficili, hanno lavorato, hanno avuto nostalgia di casa, e questo paese hanno contribuito a costruirlo con le proprie mani. Ma il cinema è un’altra cosa. Mac, di John Turturro, è un bel film (ambientato e girato a Staten Island, dove risiede una numerosa comunità di italoamericani, e meritatamente vincitore della Caméra d’Or al Festival di Cannes nel 1992) che parla di italoamericani, famiglia e lavoro, e Italianamerican (Italoamericani), il documentario che Martin Scorsese ha girato nel 1974 sui propri genitori, è un piccolo gioiello di autenticità, umanità e ironia, uno squarcio abbagliante sulla Little Italy più vera. Ma questi quasi non contano. Sono i goodfellas che amiamo di più, è la realtà scarna e ambiguamente religiosa di Mean Streets, è l’epica maestosa e violenta del Padrino, ci sono Donnie Brasco con il suo “Forget About It!” (Che te lo dico a fare?) e un Al Pacino dolente con il suo gangster di serie B che non ce l’ha mai fatta ad arrivare, ci sono i meravigliosi Soprano, che dal New Jersey hanno fatto qualche incursione a Little Italy, forse con un velo di nostalgia, e la nostalgia adesso c’è per quel grande attore che è stato James Gandolfini, che ha dato a un criminale italoamericano benestante del New Jersey un’umanità profonda che raramente si è vista in televisione e che ora rimane in qualche fotografia esposta nei ristoranti e nei caffè di queste strade. E poi c’è Once Upon A time in America (C’era una volta in America), che Sergio Leone ha girato un paio di miglia più a est e più a sud: l’indimenticabile colonna sonora di Ennio Morricone, un poster che come il film ha fatto la storia del cinema, e Robert De Niro, ancora un gangster, per una volta non italoamericano.

Tanti altri sono gli italoamericani cinematografici legati a New York, impossibile qui ricordarli tutti, ma basta pensare allo splendido Raging Bull (Toro scatenato), ancora Scorsese e ancora De Niro (qui nei panni del pugile italoamericano Jake La Motta), nato proprio nel Greenwich Village dove il film è stato girato, a Saturday Night Fever, ambientato e girato a Bay Ridge, Brooklyn, con l’italoamericano Tony Manero/Travolta, e sempre a Brooklyn Do the Right Thing di Spike Lee con Joe Pesci e il conflitto tra la comunità italoamericana e quella afroamericana di Bed Stuy, ma anche gli italoamericani di Summer of Sam, e poi Moonstruck (Stregata dalla luna), con una Cher in veste italoamericana, The Bronx Tale (Bronx), con e di Robert De Niro, qui con Chazz Palminteri nel quartiere italoamericano del Bronx, e poi tanto Al Pacino, da Serpico in poi, nato nella un tempo italianissima East Harlem e cresciuto, anche cinematograficamente, per le strade di New York.
E se non bastassero le strade a farvi immergere nella Little Italy raccontata al cinema, all’Italian American Museum, che ha sede proprio qui, all’angolo fra Mulberry e Grand, c’è una bella mostra curata da Joseph McBride, Italian American Cinema: from Capra to the Coppolas (fino al 6 marzo 2016): fotografie, video, tanto materiale informativo sui più grandi film, autori e attori del cinema italoamericano, di cui la mostra racconta tematiche e percorsi, la percezione che di esso si è creata nel tempo, come anche il contesto sociale e culturale che lo ha generato e reso famoso in tutto il mondo. Tornando in strada, che è poi da sempre il luogo della socialità da queste parti, ci si può far guidare in un dei molti tour di Little Italy, alcuni dei quali sono dedicati proprio ai film girati tra queste strade. Tra tutti, ce n’è uno dedicato al Padrino (in verità si spinge a visitare le location del film sparse anche in altri quartieri di New York) che si chiama An Offer You Can’t Refuse. Potrà far sorridere o arrabbiare, ma è così che Little Italy oggi sopravvive, fra turisti, qualche ristorante e vecchi film.