Caro Direttore,
Ho sentito dire più volte che gli oriundi italiani nati all’estero non hanno senso di patriottismo verso il paese dei loro antenati, a parte aspetti superficiali che spesso si riducono a stereotipi: “Gli italiani sono i migliori cuochi, i migliori amanti, i migliori giocatori di calcio” e così via. La mia esperienza di decenni come traduttrice e consulente con il Consolato Generale d’Italia a San Francisco mi dimostra invece un patriottismo molto più profondo. Attraverso il mio portatile sono passate centinaia se non migliaia di persone di discendenza italiana, la cui determinazione di ricollegarsi alla nostra terra diventandone cittadini riesce a sconfiggere innumerevoli ostacoli burocratici.
L’iter della cittadinanza italiana è costoso, intricato, snervante; eppure queste persone sono disposte ad affrontarlo con ammirevole tenacia. Complicati moduli devono essere riempiti, decine di documenti di ogni tipo devono essere richiesti, pagati, bollati, emendati, copiati, tradotti, spediti; un anno d’attesa solo perché il Consolato fissi un appuntamento, seguito da un lasso indeterminato di tempo perché i Comuni italiani archivino le pratiche, seguiti da un minimo di due anni perché il Ministero dell’Interno accolga le istanze, e ad ogni passo intoppi imprevisti.
A migliaia di chilometri di distanza e senza conoscere una parola d’italiano si deve andare alla ricerca di documenti sparsi nei tempi e nei luoghi: il certificato di battesimo di una bisnonna nata in un paesino del Veneto nel 1886; il passaporto firmato con la X di un nonno emigrato dalla Sicilia nel 1905; l’atto di matrimonio di genitori sposatisi in Abruzzo nel 1941; quando tutto manca, l’elenco dei passeggeri di una nave negli archivi scritti a mano di Ellis Island. Poi i nomi storpiati in mille modi da sbadati funzionari americani, e per ognuno di quei nomi la documentazione obbligatoria dell’identità dell’antenato. Dagli ascendenti di allora si mette in moto una cascata di generazioni che giunge fino ai discendenti di oggi: dottori e operai, sposini di vent’anni e vedove di settanta che mi affidano i loro fascicoli di documenti contenenti i particolari della loro vita affinché io li aiuti a raggiungere la loro meta. E la loro meta è quell’agognata lettera inviata da Roma, con la quale essi possono finalmente, orgogliosamente dire: “Siamo cittadini italiani. Siamo figli, nipoti, pronipoti, coniugi, parenti di cittadini italiani. Non abbiamo dimenticato le nostre radici.” Non c’è patriottismo più genuino di questo.
Flavia Idà, San Francisco, California