Questo che viviamo è il tempo in cui l’anonima calunnia è più vera della verità, in cui la diffamazione assurge a modello giornalistico, e in cui i social network sono tornati a usare il potere del tribunale pubblico come micidiale arma per distruggere il prossimo. Con totale arbitrarietà.
Tutto ciò lo dico a quattro giorni dall’intervista pubblicata mercoledì su Quotidiano Nazionale, un’intervista che suo malgrado ha avuto l’effetto di innescare una reazione a catena che ha trascinato Giuseppina Giugliano, una collaboratrice scolastica di 29 anni di Napoli, assunta a tempo indeterminato al liceo artistico Boccioni di Milano (dove lavora dal 2021), in un tritacarne vergognoso. La colpa di Giugliano? «Essere una bugiarda». Così ha sentenziato il tribunale del popolo. Così la sua condanna è stata cavalcata, rilanciata, rimasticata e rigurgitata. Del resto è molto facile prendersela con chi non ha mezzi per difendersi.
Ripercorriamo allora la vicenda, perché la sua abnormità può essere utile a capire quale sia, tristemente, il mondo in cui ci troviamo. Giuseppina Giugliano racconta, nell’intervista, che il suo stipendio da 1.165 euro al mese non le consente di vivere in una città come Milano e che – conti alla mano e a fronte di insindacabili scelte di vita personali – le è più conveniente fare la pendolare che trasferirsi nel capoluogo lombardo.
Preferisce, dunque, muoversi tra Napoli e Milano, malgrado i quasi 1.600 chilometri di treno. Sfruttando le promozioni di Italo, acquistando i biglietti con larghissimo anticipo e incrociando le offerte, Giugliano dice di riuscire ad abbattere i costi di quasi il 70% e a spendere mediamente 400 euro al mese. La storia di Giugliano ci viene segnalata da un’insegnante che lavora nel suo liceo, la professoressa Francesca Alparone, ed è una storia che – in maniera estrema per via della scelta di vita estrema della protagonista – fotografa una realtà amara e del tutto comune della nostra società: e cioè il fatto che i salari in Italia, e specie nel mondo della scuola, sono inadeguati, fanalino di coda di ogni classifica europea, e soprattutto ormai completamente inadatti a sostenere il costo della vita. Rendendo poco dignitoso, per usare un eufemismo, il proprio lavoro.
Il primo giorno Giuseppina Giugliano viene circondata da un’onda di solidarietà e affetto, e da molte offerte di aiuto, ma fin dalla sera di mercoledì qualcosa inizia a scricchiolare nel tribunale social. Tra chi mette in dubbio la verità del suo racconto e chi strumentalizza politicamente la vicenda, adducendo che Giugliano sarebbe un modello di sacrificio contro chi, sfruttando il reddito di cittadinanza, rinuncia a lavorare. Vabbè.
Ma bisogna aspettare ventiquattro ore perché inizi ad alzarsi il primo venticello della calunnia. Funziona così: la mattina dopo, giovedì, un utente Facebook pubblica un post in cui sostiene di aver sentito, durante un’importante trasmissione radiofonica nazionale, un’intervista alla preside del Boccioni secondo cui Giugliano avrebbe lavorato solo due giorni dall’inizio dell’anno scolastico.
Poco importa che questa intervista, semplicemente, non fosse mai avvenuta (al punto che lo stesso utente sarà costretto a modificare il messaggio qualche ora dopo): in men che non si dica quel post viene rilanciato centinaia e poi migliaia di volte. In men che non si dica, insomma, il vento della calunnia è già diventato un tornado. Il tribunale del popolo ha già emesso la sentenza: Giugliano è una bugiarda, Giugliano non lavora. Qualche minuto dopo, questa volta su Twitter, un altro utente dice di aver sentito insegnanti della scuola (tutti ovviamente anonimi, perché la calunnia è sempre anonima) confermare l’anonima versione: «È andata a lavorare solo due volte».
Anche in questo caso, nessuno si preoccupa del fatto che una dichiarazione anonima non abbia alcun peso a fronte di chi, mettendoci la faccia il nome e il cognome – come hanno fatto, sempre dalle colonne di QN, la professoressa Alparone e gli studenti del Boccioni – difende Giugliano: il tornado della calunnia è l’unica verità accettabile per i social.
Il passaggio di livello avviene nel pomeriggio di giovedì. Quando addirittura alcuni giornali online dedicano articoli di “fact-checking” alla versione di Giuseppina Giugliano. Peccato che in questi articoli vengano riportate solo dichiarazioni anonime. Così è tutto un: fuori da scuola si dice, si vocifera, si racconta che Giugliano non vada a lavorare. Ora, deve essere sfuggito che accusare qualcuno senza prove – «si dice, si mormora, si sussurra che Giuseppina Giugliano non lavori» – è diffamazione.
Così, per giorni, il diffamante chiacchiericcio sulle presunte bugie e sul presunto assenteismo non di un capo di Stato, non di un politico corrotto, non di un pericoloso criminale, ma di una collaboratrice scolastica di 29 anni, è diventato il principale tema di un dibattito pubblico rozzo, classista e perfino vagamente razzista. Ignorando completamente l’unica cosa su cui ci sarebbe stato da dibattere. E da riflettere. E cioè che una paga da 1.165 euro al mese non è dignitosa in un Paese cosiddetto civile. Meglio dunque accanirsi per fare il conto su quanti euro in più, esattamente, avrebbe speso Giugliano per pagare i suoi biglietti del treno piuttosto che denunciare un sistema salariale che condanna i cittadini a fare scelte che non possono in alcun caso definirsi dignitose.
Così Giuseppina Giugliano è finita alla gogna, senza appello. Benvenuti nel medioevo digitale, nei suoi anni più bui. Posso solo augurarmi che riusciremo a riaccendere presto la luce. E il cervello.