Da oggi si può fare musica in duo col proprio avatar. Giusy Caruso è la prima pianista al mondo ad aver fatto un’incursione musicale nel metaverso con la performance “MethaPhase, dialogo contrappuntistico fra una pianista e il suo avatar”, realizzata in anteprima mondiale il 23 settembre scorso a Cremona Musica International Exibitions and Festival su musica del compositore americano Steve Reich.
Si tratta di un progetto sviluppato in collaborazione con l’ingegnere Paolo Belluco, il designer Samuele Polistina e il Vr developer Andrea Randone della LWT3, un’italianissima azienda che si occupa di acquisizione, gestione, analisi e comprensione dei dati e delle human performance. https://www.lwt3.com/
Il metaverso è destinato a cambiare non solo i comportamenti e le interazioni umane a livello planetario, ma anche le modalità di fruizione dell’arte, permettendo al pubblico di esplorare nuovi mondi sonori al di là della soglia del reale grazie all’integrazione della tecnologia digitale nelle arti performative.
Le radici concettuali della performance, ispirata dai più recenti studi nelle neuroscienze sul movimento performativo, sulla bio-meccanica e sull’interazione uomo-macchina, derivano dal percorso di ricerca da tempo intrapreso dalla concertista italiana residente a Bruxelles, che è attualmente artista ricercatrice post-doc presso il Conservatorio Reale di Anversa, presso l’IPEM – Istituto di Psicoacustica e Musica Elettronica in seno al Department of Art, Music and Theatre Sciences of Ghent University nonché presso il Laboratoire de Musicologie, Université libre de Bruxelles, e visiting professor presso la London Performing Academy of Music dove tiene il Mirroring Creative Lab, corso sulla pratica e la tecnologia dell’esecuzione musicale.
La pianista ci spiega i dettagli del suo progetto innovativo che la vede dialogare con il suo avatar nel metaverso e le nuove direzioni della sua incessante attività di artista ricercatrice.

Innanzitutto, cosa ti lega agli Stati Uniti e, in particolare, a New York City?
“La registrazione dei “72 Etudes Karnatiques” del compositore francese Jacques Charpentier è stata pubblicata nel 2018 dall’etichetta discografica americana Centaur Records. Ciò ha fatto sì che io sia stata recensita da diversi critici americani, tra cui Jed Distler, che è poi diventato un mio grande amico. È stato lui a chiedermi di tenere a New York una maratona-concerto nella Sala Spectrum di Brooklyn, nota per dare luogo a esibizioni di musica sperimentale, dove ho eseguito tutti i 72 Studi Carnatici, circa tre ore di musica, presentando anche il cd che lui ha recensito per la rivista online Classics Today”.
Ci spieghi in cosa è consistita la tua performance in prima mondiale a Cremona Musica?
“Questa performance è frutto di uno studio scientifico che ho realizzato negli ultimi anni all’Istituto di Psicoacustica e Musica Elettronica dell’Università di Ghent, in Belgio dove, lavorando proprio sugli Studi di Charpentier, ho utilizzato la tecnologia del Motion Capture, basata su un sistema di telecamere a infrarossi che riescono a catturare il movimento nello spazio del performer, che è ricoperto di marker riflettenti la luce. Questa tecnologia consente non solo di raccogliere dei dati quantitativi (cioè la misurazione dell’ampiezza, della velocità e dell’accelerazione) riguardanti il gesto performativo del musicista, in particolare nell’approccio alla scrittura contemporanea, ma anche di visualizzare, attraverso la realizzazione di un agente virtuale, quindi di un avatar, il proprio corpo nello spazio tridimensionale. Ciò permette un’osservazione ancora più approfondita sull’espressività corporea nella performance pianistica”.
Come sei finita poi nel metaverso?
“Lo step successivo della mia ricerca riguarda l’utilizzo di questa tecnologia dal punto di vista del performer e della sua percezione corporea, attraverso l’uso di un particolare occhiale, l’Oculus, mentre si trova immerso in una scena virtuale. Questa sperimentazione, ricordo, ha innanzitutto una finalità scientifica, ma mi ha portato poi a pensare di realizzare una vera e propria performance nel metaverso, sulla scia dell’idea di “augmented-performance”.
Il compositore con cui sei entrata nel metaverso è il newyorkese Steve Reich…
“Esatto. Per questa performance abbiamo utilizzato il brano Piano Phase di Steve Reich, basato su dodici note che vengono ripetute da un primo pianista, mentre un secondo pianista ripete le stesse note inizialmente all’unisono; successivamente si crea una piccola accelerazione, un delay tra i due musicisti per poi rientrare di nuovo in sync. Si sviluppa quindi tra i due pianisti un contrappunto fra momenti di fase, cioè di sincronismo, e momenti in cui si va out of sync: questo crea uno sfasamento e quindi nuovi pattern musicali finché, alla fine del ciclo, non si ritorna di nuovo all’unisono. Io ho pensato di reinterpretare questa composizione pre-registrando la prima parte attraverso il Motion Capture, catturando quindi la mia espressività corporea, e poi, durante la performance live, in tempo reale, ho iniziato ad avere un dialogo nel metaverso con il mio avatar. Il pubblico, che era fisicamente presente ha seguito la performance all’interno di questo spazio virtuale e il giorno dopo, in una fase di post-produzione, nel nostro stand a Cremona Fiera, le persone potevano rivedere attraverso l’Oculus la performance realizzata il giorno prima appunto nel metaverso”.

Parliamo del particolare strumento con cui hai realizzato la performance. In cosa consiste l’interazione uomo-macchina, anzi, donna-piano?
“Ho utilizzato il disklavier della Yamaha, che è partner del progetto, che permette di registrare il tocco espressivo e anche la pedalizzazione del musicista. Con questo strumento ho dapprima eseguito brani pianistici di musica contemporanea nella realtà aumentata, quali il primo movimento della raccolta “Memento Mori” del compositore belga Wim Henderickx e una selezione dei “72 Etudes Karnatiques” di Charpentier, ma la vera incursione nel metaverso si è avuta, come ho spiegato, col brano di Steve Reich”.
Dal punto di vista del pubblico, in cosa consiste questa nuova forma di fruizione immersiva e, allo stesso tempo, interattiva della musica?
“Avere la possibilità di entrare nello spazio del metaverso per fruire di qualcosa che è il risultato di un’interazione con la macchina, che però è un’interazione creativa, penso che possa offrire uno sguardo verso il futuro. Senza nulla togliere ai concerti tradizionali di musica classica, che devono continuare a esistere, è necessario creare nuovi codici performativi in cui la gente si possa identificare. Questa performance nel metaverso ha avuto anche una forte finalità di divulgazione della musica contemporanea, legata al concetto di public engagement”.
La tua sperimentazione artistica continua nel progetto T*ActiLE al Conservatorio di Anversa con CREATIV – Artistic Research Group, un’équipe di ricerca che ha stanza proprio nel Conservatorio Reale belga. Cosa ci dobbiamo aspettare di più avanzato?
“Presto ci sarà la possibilità di implementare in questa mia performance anche dei sensori che possano mettere in contatto diretto il pubblico col metaverso in modo che, con una particolare gestualità, possano interagire con la scena virtuale apportando dei cambiamenti personali, cambiando i colori oppure aggiungendo dei suoni. Questo progetto, appunto T*ActiLE, verte proprio sul modo in cui il movimento corporeo, il tatto, possa essere tradotto in qualcosa di visivo o di uditivo, non solo dal punto di vista del performer, ma anche dello spettatore, che diventa parte attiva della performance e, in qualche modo, co-creatore. Questa fase nuova del mio nuovo progetto parte dal concetto dello spazio performativo come spazio di interazione sociale”.
Hai pubblicato un libro che si intitola La Ricerca Artistica Musicale. Linguaggi e Metodi (LIM, 2022), il primo in lingua italiana sulla ricerca artistico-musicale. In cosa consiste la figura del musicista ricercatore?
“La musica per un performer deve essere una missione sempre rivolta alla creazione di qualcosa di nuovo. Il concetto di ricerca quindi è insito nel percorso creativo di ciascun artista. Da vent’anni la ricerca artistica è stata istituzionalizzata nel nord Europa, riprendendo il modello americano dei performance studies, per cui è possibile accedere a dei dottorati di studio dove la ricerca artistica è riconosciuta come una ricerca di tipo scientifico, intesa come foriera di nuove conoscenze. L’obiettivo della ricerca artistica non deve essere cioè solo quello di produrre una performance, ma anche quello di creare nuova conoscenza, che può essere divulgata anche attraverso degli articoli scientifici. Quella dell’artista ricercatore è una nuova figura professionale che in Italia deve essere ancora riconosciuta e inquadrata anche in all’interno dei Conservatori”.