La domanda irriverente rimase in sospeso fin quasi alla fine dell’intervista. E’ buona regola quando si incontra un autocrate affrontare verso l’epilogo le questioni più urticanti. Per non correre il rischio di veder troncare anzitempo la conversazione. In cinquanta minuti di colloquio ero riuscito a stabilire un clima confidenziale con il presidente siriano Bashar Al Assad. E quindi, dopo una sua vaga e frettolosa smentita sulla repressione della dissidenza, ritenni che fosse giunto il momento di piazzare la stoccata. “Dicono che lei è un dittatore…”. Assad reagì con un mezzo sorriso e subito replicò. “E chi lo dice?”. “George Bush, per esempio”, lo incalzai. E lui, pronto e disinvolto: “Ma lei crede ancora in George Bush? Ma se non ci credono più nemmeno gli americani…”.
Era il maggio 2008. L’ultimo anno del secondo mandato di Bush. E ottavo anno di presidenza per Bashar che era succeduto quasi casualmente al padre Hafez. E che nei giorni scorsi è stato rieletto plescibitariamente per la quarta volta (oltre il 95 per cento dei consensi) ostentando il mite sorriso di sempre, nonostante l’abisso senza fine in cui è precipitata la Siria.

L’erede designato era il fratello Basil, personalità violenta e arrogante che morì nel 1994 in un misterioso incidente stradale (si parlò di complotto ordito da qualcuno dei suoi innumerevoli nemici). Tutto il contrario di Bashar, uomo garbato e timido che faceva l’oculista a Londra e aveva assimilato insieme con la moglie Asma gli stili di vita occidentali. Ma che dopo la scomparsa di Basil fu immediatamente richiamato a Damasco per farlo impratichire nell’arte del comando che in Siria storicamente escludeva l’esercizio della democrazia.
Agli inizi, ad onor del vero, il giovane Assad cercò di sottrarsi al cliché del satrapo orientale. Vestendo all’europea, contornandosi di artisti e intellettuali e accennando a timide aperture nella società civile. Gli furono di aiuto l’indole apparentemente mansueta e il bagno nella cultura occidentale. I giornali rilevarono i suoi sforzi e si cominciò a parlare di “primavera di Damasco”. Con la prospettiva del pluripartitismo, della stampa libera e di elezioni monitorate da autorità indipendenti. Ma fu presto anche lui risucchiato nei rigidi schemi di potere della vecchia nomenclatura ispirata, allora come oggi, dal Cremlino.

Già nel 2008 la Siria era un paese imbavagliato. In cui il regime in mano agli alawiti (un ramo eterodosso della dottrina sciita) teneva a bada le insofferenze della maggioranza sunnita con concessioni sul piano dell’economia e si era assicurato con la protezione i favori dei cristiani. L’ispirazione laica del partito al potere (il Baath, socialismo panarabo) consentiva anche libertà nei costumi. Le ragazze potevano non indossare il velo, le notti di Damasco e Aleppo erano ravvivate perfino dalle insegne dei night club. Ma rimaneva rigorosamente precluso il dissenso politico.
Assad tentava ancora di conservare un profilo glamour. Al punto da venir definito “il dittatore riluttante”. Nell’intervista nel palazzo presidenziale di Damasco, ottenuta grazie alla mediazione di Bilal Mohsen (il suo ministro dell’Informazione che aveva studiato medicina a Padova e mi aveva preso in simpatia), non fece pesare il ruolo. Parlando un ottimo inglese ridusse subito le distanze. Si sviluppò una conversazione cordiale, a tratti cameratesca, come fra vecchi compagni di scuola. In cui, spaziando dai nodi mai risolti del Medio Oriente agli intrighi della politica interna, non esitò a parlare neanche dei suoi hobby (il basket, soprattutto, e i videogames) e della sua vita famigliare.

Neanche nelle più funeste previsioni era ipotizzabile la catastrofe umanitaria in cui solo tre anni dopo, sulla scia delle rivolte arabe, sarebbe sprofondata la Siria. E l’esecrazione per i crimini di guerra che hanno demolito agli occhi del mondo la reputazione di Assad, oggi un burattino tenuto in vita solo dagli interessi di Mosca e Teheran.
Nel 2008 l’economia siriana cominciava a sollevarsi grazie al boom turistico che un paio d’anni dopo la consacrò come meta privilegiata per i viaggiatori internazionali a caccia di scenari da riscoprire. Rifulsero di nuova luce le rovine di Palmira e di Ebla, il Krak dei Cavalieri (fortezza costruita dai crociati). Nelle due metropoli, Damasco e Aleppo, la vita e i commerci erano sempre più brulicanti fra i suk e le aree adiacenti. Prosperavano i poli di attrazione sociale come la gelateria Bakdash di Damasco, presso la moschea degli Omayyadi. Dove veniva servito il miglior gelato della Siria (un dessert a base di latte congelato con mastice di lentisco) ma dove la gente si radunava soprattutto per combinare affari e addirittura matrimoni. O il Baron Hotel di Aleppo che nelle sue stanze aveva visto passare la storia: da Lawrence d’Arabia a Nasser ad Agata Christie che negli Trenta vi scrisse “Assassinio sull’Orient Express”.
Dal 2011 la guerra civile non ancora completamente conclusa ha spazzato via quasi tutto, riducendo il paese a un cumulo di macerie. Assad fu sul punto di saltare quando la repressione contro i ribelli si spinse al punto di usare le armi chimiche. Obama era deciso a eliminarlo o almeno a esiliarlo. Ma il dittatore forse non più riluttante fu salvato dalla Russia che convinse gli Stati Uniti a tenerlo ancora a galla perché in qualche modo rappresentava una diga contro l’avanzata dell’Isis.

Mosca, che in pratica ha colonizzato il paese aiutando Assad a recuperarlo quasi interamente (eccetto le aree intorno a Idlib e quelle autonome dei curdi), ha tutti gli interessi a disporre di un re travicello che garantisca l’operatività delle basi militari di Tartous e Khmeimim, gli occhi del Cremlino sul Mediterraneo e sul Medio Oriente.
Era quindi del tutto scontato, come nelle tre volte precedenti, l’esito delle ultime elezioni farsa. In cui, per scimmiottare la democrazia, il regime ha scovato due figuranti che hanno accettato di lanciare il guanto di sfida ad Assad. L’ex ministro Abdallah Slalom Abdallah, che non si è mai sganciato dai centri del potere. E Mahmoud Merhi, esponente dell’opposizione cosiddetta moderata (uno sfiatatoio per simulare un minimo di opposizione). Se In Siria ci fosse l’Oscar gliel’avrebbero assegnato come attori non protagonisti.
Assad ha vinto con il grottesco bottino del 95,1 per cento dei voti, lasciando ai presunti rivali le briciole. Sono seguiti i festeggiamenti immortalati dalle foto di rito. Con il presidente confermato, oggi 56enne, sorridente e apparentemente sereno come quando la dinastia e la nomenclatura lo spinsero ai vertici a 35 anni. Ma con un fardello (su una popolazione di 18 milioni) di mezzo milione di morti, 5 milioni di sfollati all’estero e ancor di più all’interno. A cui aggiungere le piaghe collaterali della miseria dilagante e della falcidie prodotta dal Covid. Un quadro terrificante che rende il suo sorriso sinistro e non più glamour. Chissà come risponderebbe oggi Assad alla domanda: “Dicono che lei è un dittatore…”.
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