A marzo è stato approvato alla Camera degli Stati Uniti un nuovo Dream Act, che permetterebbe ai ragazzi arrivati in USA da bambini di ottenere la cittadinanza. Ma anche in Italia ci sono i “Dreamers”, ragazzi cresciuti in Italia fin da bambini, che non riescono a diventare cittadini.
Dopo il maldestro tentativo di Trump di cancellare anche il DACA, introdotto da Obama nel 2012, che permette a giovani cresciuti negli USA di accedere ad una istruzione superiore e offre loro un permesso di lavoro rinnovabile ogni due anni, è stato riproposto il Dream Act, fermo per anni al Congresso.
Ma a marzo 2021 il Dream Act, in una nuova veste, è stato finalmente approvato dalla Camera e potrebbe arrivare a breve in discussione in Senato.
Kwanza Musi Dos Santos rappresenta i dreamers italiani, quei ragazzi che hanno studiato e sono cresciuti in Italia che però sono costretti a sentirsi cittadini di serie B da leggi che ostacolano l’ottenimento della cittadinanza.
Nata ad Amburgo, da papà afrobrasiliano e mamma bolognese è poi cresciuta nel cuore multietnico di Roma: il quartiere di Torpignattara. Co-fondatrice dell’Associazione QuestaèRoma, parla fluentemente sette lingue e al momento lavora presso organizzazioni profit e no profit come consulente e formatrice in diversity management.

Quanto tempo fa e come è nata l’idea di QuestaèRoma?
“QuestaèRoma (che si scrive proprio così in una sola parola e si ispira all’idea romanticizzata della Roma Antica, come un punto di incrocio tra vari mondi e culture) è un’associazione nata nel maggio 2013 da un gruppo di giovani di origine straniera, ognuno con un’esperienza individuale diversa, che rappresenta a tutto tondo l’eterogenea realtà plurale delle cosiddette “seconde generazioni” o come preferiamo definirli noi “italiane ed italiani di origine straniera”.
C’è chi è stato adottato, chi è figlio di coppia mista, chi è arrivato in Italia col ricongiungimento famigliare, chi è stato cresciuto da genitori stranieri.
Ci siamo resi conto che a Roma mancava un’organizzazione che non si occupasse di diritti solo per “compartimenti stagni” (es. le donne si occupano solo di parità di genere, le persone LGBT di omofobia, i neri di razzismo), mentre noi crediamo fortemente nel principio di “intersezionalità”: una persona può essere portatrice di molteplici caratteristiche e quindi soggetta a differenti oppressioni sociali e sistemiche. Inoltre, non c’è bisogno di essere parte di una comunità socialmente marginalizzata, per lottare contro le discriminazioni che le persone di quella comunità subiscono. Allo stesso tempo però è importante prediligere sempre il protagonismo dei diretti interessati, per evitare paternalismi, strumentalizzazione politica e banalizzazione. I nostri principali obiettivi sono quelli di avvicinare la politica ai giovani e i giovani alla politica (visto che sono spesso disillusi o disinteressati) e creare luoghi di incontro per persone con retroterra differenti, preferibilmente in contesti informali e di intrattenimento, valorizzando in questo modo anche l’arte e la cultura come strumento di interazione”.

Tu sei una ragazza italiana, di origini afrobrasiliane, ci racconti la tua storia personale e familiare?
“Io sono nata in Germania da mamma bolognese e papà afrobrasiliano ed ho avuto la fortuna di crescere a Roma sola con mia mamma (mio papà è rimasto in Germania perché si trova meglio lì) in un contesto fortemente multiculturale. Il mio quartiere, Torpignattara, è uno dei quartieri più multietnici di Roma, ho fatto l’asilo al Celio Azzurro che ha una forte presenza di figli di persone immigrate e mia mamma insegna danza afro-occidentale, per cui tutti i suoi collaboratori sono musicisti senegalesi, guineani.
Ci sono stati vari momenti della mia vita in cui mi sono fatta domande sulla mia identità, alle cene di famiglia materna, infatti, ero l’unica a non essere bianca, ma la maggior parte delle mie amicizie sono persone di origine straniera, anche perché condividiamo vissuti molto simili e ci capiamo al volo su molte cose. Mi sono anche resa conto della triste realtà del colorismo (discriminazione a seconda della gradazione di tonalità di pelle ndr) quando andavo in giro con alcune mie amiche più scure di me e vedevo la differenza di trattamento (in negativo) che riservavano loro.
E, inoltre, della “feticizzazione” soprattutto nei confronti delle donne afro-latine, che all’inizio prendevo come un complimento “la brasiliana caliente, focosa, panterona”, ma che poi mi sono resa conto fosse un pregiudizio che mi categorizzava in un certo modo, prima ancora di sapere il mio nome. Queste persone non erano veramente interessate a conoscere me, bensì la ragazza che rappresentavo nelle loro fantasie. Ho da sempre sentito forte l’impulso all’attivismo, ereditato da entrambi i miei genitori, e un forte senso della giustizia che mi porta ad amplificare la voce di persone discriminate e tutelare i loro diritti”.
L’associazione ha fini culturali ma anche sportivi. Quanta importanza ha lo sport nel processo di integrazione e quanta ne ha la scuola?
“Esattamente quanto la cultura. È un ponte naturale, uno spazio “alla pari” dove ci possono essere due o più squadre, ma mai due fazioni, dove si parte dallo stello livello e ci si misura in base alla bravura e all’impegno, non a caratteristiche fisiche innate.
Non parliamo di integrazione, perché bambini e bambine cresciute/i in Italia, diventano italiane/i naturalmente, senza bisogno di processi forzati imposti dall’alto. È inevitabile: parlano italiano, mangiano italiano, giocano italiano, respirano italiano. Quello che manca è piuttosto il riconoscimento: il riconoscimento della cittadinanza italiana per molti giovani con genitori stranieri, che così anche nello sport perdono un’occasione. Un ragazzo che voglia rappresentare con il suo talento la nazionale italiana, non può farlo per mancanza di un pezzo di carta”.

Discriminazione e razzismo sono spesso citati in episodi di cronaca, a causa delle violenze fisiche o verbali subite da chi ha caratteristiche somatiche diverse dalla maggioranza della popolazione italiana. Ma quanti sono gli atti di intolleranza, a tuo avviso, che avvengono giornalmente, magari meno violenti ma non per questo meno preoccupanti, come battute, comportamenti, umiliazioni?
“Innumerevoli. È impossibile calcolarli soprattutto perché le stesse persone che subiscono queste micro -aggressioni, la metà delle volte non hanno gli strumenti per riconoscerle e denunciarle. Spesso pensano di “esagerare” e infatti è quello che gli viene detto nove volte su dieci, non solo da amici, ma anche delle stesse autorità che dovrebbero invece tutelare, prevenire e condannare fermamente questi episodi, per evitare che l’escalation dia luogo a veri e propri attacchi, com’è già successo più di una volta. In questo modo invece si sminuisce l’esperienza individuale di una persona socialmente marginalizzata, che porta in alcuni casi anche a conseguenze psicologiche gravi, da non sottovalutare, che hanno impatto sulla persona e su chi la circonda. Non si tratta solo di autostima, o di resilienza”.
Cos’ è il razzismo sistemico? Sulla vostra pagina Facebook parlate spesso di “razzismo come una questione di potere”, ci puoi spiegare meglio questa affermazione?
“Il razzismo è diverso da pregiudizio o discriminazione. Le ultime due partono di solito da considerazioni personali e si limitano a un contesto interpersonale o individuale. Il razzismo invece è un sistema, politico, economico e sociale creato da una determinata categoria di persone per sopraffare tutte le altre e giustificarne i soprusi basandoli su una fantomatica divisione sociale, ideologica e gerarchica della razza umana. Questa divisione in razze, seppure non abbia fondamento in biologia, a livello sociologico e politico è ancora molto presente in tutto il mondo. Infatti, vediamo come gli standard di bellezza e di ricchezza in molte società, sono basati su un’idea di presunta “bianchezza”. Delle persone nere o con tratti somatici non originariamente occidentali, viene continuamente messa in discussione non solo l’identità, ma anche l’autorevolezza. Per effetto di questa categorizzazione in razze, quando un nero o un musulmano compie un reato, automaticamente si additano tutte le persone nere e/o musulmane come potenziali delinquenti, solo perché vengono associate come parte della stessa categoria sociale. Inoltre, si chiede a quelle persone di dissociarsi da questi atti, in quanto si è considerati colpevoli fino a prova contraria. Questo non succede con le persone bianche, addirittura i bianchi che hanno compiuto stragi di massa in Norvegia o in USA sono stati raramente chiamati terroristi, e vengono spesso giustificati con il termine sbrigativo di ‘squilibrati mentali'”.

Negli USA la tensione sociale è molto forte, dalla barbara uccisione di Floyd, agli abusi di potere giornalieri da parte delle forze dell’ordine nei confronti di afroamericani e latini, fino ai recenti attacchi contro gli asiatici. Eppure, gli USA per gli italiani sono stati sempre un esempio di integrazione culturale e razziale, essendo una terra di immigranti. Cosa pensi di ciò che sta accadendo negli Stati Uniti?
“Penso che guardiamo troppo agli Stati Uniti per fare paragoni positivi invidiandone il loro apparente progressismo in termini di composizione multiculturale della società o negativi per “auto-assolverci” dicendo “ah ma in Italia stiamo messi meglio”. Tutto questo depistaggio è deleterio, perché svia dalla questione più importante: la responsabilità che abbiamo tutte e tutti di affrontare il problema del razzismo in Italia in modo serio e sincero, decostruendo gli stereotipi e le credenze che ci hanno inculcato fin da piccoli, a partire dalle voci di chi lo subisce senza sminuirle, o tacciarle di vittimismo. Il razzismo è un sistema, quindi per smantellarlo ci vuole un approccio altrettanto sistemico di soluzioni pratiche che intacchino vari ambiti della società. Non bastano hashtag, manifestazioni di piazza, conferenze e “giornate della memoria”, bisogna rivedere l’intero programma scolastico, gli episodi troppo frequenti di apologia del fascismo, le responsabilità mai ammesse ed elaborate del colonialismo italiano in cui il razzismo odierno affonda le radici”.
Ci sono più di un milione di ragazzi italiani senza cittadinanza, quali sono le soluzioni possibili? Ius soli, ius culturae? Quale sarebbe la strada da percorrere che chiedete alla politica?
“Conosciamo da vicino la situazione, in quanto alcuni di noi sono nati o cresciuti qui, ma non sono riconosciuti cittadini. Questo provoca moltissime problematiche, non solo a livello legale e burocratico, ma a volte anche a livello emotivo. La soluzione è nel mezzo, bisogna prevedere un iter specifico sia per chi nasce in Italia che per chi ci cresce, arrivando in tenera età con i genitori o per effetto del ricongiungimento. In entrambi i casi i bambini non scelgono dove nascere o dove spostarsi. Semplicemente subiscono le decisioni dei loro genitori, pertanto vanno tutelati i diritti dell’infanzia. Ad oggi, per esempio, non è previsto un iter specifico per chi arriva in Italia da piccolo, da minore. La legge attuale è del tutto anacronistica, ostativa, esclusiva e insensata, paradossalmente al momento è più rapido diventare cittadino per una persona adulta (10 anni di residenza come requisito, più altri tre massimo per completare l’iter una volta fatta la richiesta) che per una persona che in questo paese è nata, da genitori stranieri. Deve aspettare almeno 18 anni solo per poter fare richiesta. Noi auspichiamo quindi a una legge che sia giusta e che preveda un iter specifico che tenga conto il più possibile delle particolarità di ogni fattispecie, una legge che riconosca che il panorama demografico italiano attuale è cambiato e bisogna essere al passo con i tempi”.

Voi siete un pò come i “Dreamers” americani, ragazzi che sono in Italia per rincorrere un sogno e per avere la cittadinanza del paese dove hanno vissuto, studiato e dove lavorano. Quanto influisce sulle vostre vite questa sensazione di essere cittadini di Serie B?
“Alcuni di noi hanno la cittadinanza da quando sono nati, ereditata per via sanguigna, altri l’hanno ottenuta a 18/20 anni, altri ancora non ce l’hanno nonostante abbiano già più di trent’anni… E’ una situazione paradossale. Come dicevo, a livello burocratico influisce tantissimo: limitata libertà di movimento, limitata possibilità di partecipare a scambi all’estero di studio o lavoro, impossibile partecipare a bandi per concorsi pubblici, impossibile partecipare a competizioni sportive agonistiche rappresentando la nazionale, impossibile partecipare attivamente alla vita politica del paese, votando o candidandosi. E la ripercussione è anche a livello emotivo, in quanto ti senti il figlio illegittimo di un paese che ami e che senti completamente come “tuo”, ma che invece non ti riconosce, non ti vede, quasi ti disprezza. E una volta ottenuta la cittadinanza, questa sensazione tuttavia persiste, perché per via del razzismo e di altre forme di oppressione sociale, sei costantemente messo in condizione di dover scegliere di amare un paese più di un altro e dimostrare che sei italiano a tutti gli effetti”.
Gli episodi di discriminazione sono aumentati negli anni? E quanto?
“Abbiamo notato come gli episodi di discriminazione sono aumentati con l’avvento al governo di alcuni esponenti politici che hanno fatto dei discorsi d’odio la loro bandiera principale. Così hanno legittimato ancora di più micro-aggressioni e episodi che già vivevamo spesso quotidianamente, giustificandoli con il diritto alla libertà di opinione e di espressione… Non è un caso, infatti, che per esempio nel 2018 si sono consumate molte tragedie di evidente matrice razzista, veri e propri attacchi terroristici ai danni di corpi neri. Con la pandemia invece, come abbiamo visto anche globalmente col fenomeno “George Floyd”, forse alcune persone hanno iniziato a mettersi in discussione e a essere più disposte all’ascolto delle esperienze subite dalle minoranze”.

Da donna senti il peso di una società patriarcale e maschilista che purtroppo ancora è ben radicata anche in Italia? Cosa dovrebbe fare l’Italia per le donne più giovani (e anche per i ragazzi più giovani per educarli al rispetto delle donne?)
“Lo sento profondamente questo peso, penso anche a quando magari avrò dei figli e delle figlie che si troveranno a subire la stessa situazione… è triste vedere come anche le stesse donne che si proclamano femministe, spesso si dimenticano di denunciare o di scendere in campo per le cause delle donne non bianche, non etero, non abili… c’è ancora troppa frammentazione e voglia di protagonismo e soprattutto questa tendenza a voler sempre incolpare la vittima invece di chiedersi in che modo, anche indirettamente, si può smettere di essere complici di questo sistema, che riproduce questo tipo di oppressione. L’Italia dovrebbe investire di più sulla formazione dei giovani a partire dalla scuola, introdurre educazione sessuale e affettiva accanto a quella civica, incoraggiare i giovani ragazzi a manifestare l’emotività e la fragilità. Ma anche i media e la politica devono dare segnali forti di cambiamento e d’ispirazione, non solo con slogan, ma anche con i fatti, permettendo alle donne di arrivare a posti di prestigio, sia nel pubblico che nel privato. Prevedendo anche a livello legislativo degli iter che garantiscano il rispetto della diversità e il principio di equità di trattamento.
Ad esempio, ora si discute della legge Zan, ma non dovrebbe essere neanche argomento di discussione. È una legge che dovrebbe essere approvata all’unanimità, per tutelare le persone e le loro identità. Penso anche alla tampon tax, gli assorbenti considerati come beni di lusso. In un paese che si reputa civilizzato e del cosiddetto “primo mondo” questo è inaccettabile”.
Nelle periferie il problema socioeconomico si sente ancora più forte, soprattutto ora a causa del Covid. Come fare a contrastare chi punta sempre il dito su persone come voi per giustificare problemi che nulla hanno a che fare con il disagio di quei quartieri?
“Su questo i media hanno una grande responsabilità. Dovrebbero focalizzarsi più sulla narrazione della storia in modo obiettivo, magari a partire da alcuni dati statistici. Invece continuano a rincorrere lo scoop e il sensazionalismo, usando titoli per attirare l’attenzione. Ma anche noi in quanto lettori e lettrici dovremmo pretendere di più e imparare a riconoscere le notizie interessanti e utili, da quelle superficiali e meramente “acchiappa-like”. E la politica dovrebbe occuparsi di garantire i diritti fondamentali alle persone, senza distinzione di classe, nazionalità, ecc. per cercare di sedare sul nascere queste potenziali ‘guerre tra poveri'”.

Quali sono le speranze e i sogni che vorresti si realizzassero nell’immediato futuro?
“Maggiore rappresentatività a tutti i livelli e in tutti gli ambiti, sia pubblici che privati. Mi piacerebbe vedere una presentatrice televisiva disabile, una presidente del consiglio nera e lesbica, una dottoressa col velo, ecc. E non basta che esse esistano, devono anche essere più veicolate le immagini che mostrano questa pluralità e unicità. Vorrei che approvassero finalmente questa riforma della legge sulla cittadinanza. Un atto dovuto da troppo tempo, di civiltà e di riconoscimento di persone che fanno parte integrante del nostro tessuto sociale, ma sono trattate come cittadine di serie D..
Mi piacerebbe vedere che il personale della pubblica amministrazione e delle istituzioni sia formato per essere in grado di porsi in modo rispettoso ed educato con persone di diverso background. E mi piacerebbe che si imparasse ad ascoltare prima di tutto le persone direttamente interessate quando si tratta di temi di natura sociale”.
Puoi segnalarci le vostre pagine social, i vostri numerosi eventi sportivi e culturali e dove altri ragazzi e persone interessate possono trovarvi?
“Trovate tutti gli aggiornamenti su Instagram @questaeroma, Facebook QuestaèRoma e sul nostro sito ufficiale www.questaeroma.org
Al momento stiamo promuovendo due campagne: Fading, una serie di video-denuncia del razzismo in Italia che trovate anche seguendo l’ #fading
La campagna #cambieRAI per chiedere a tutti i media italiani, pubblici e non, di cambiare il linguaggio retrogrado, offensivo, stereotipato che ancora è parte integrante della scarsa offerta della maggior parte dei palinsesti. Potete trovare la lettera sul nostro sito e altri contenuti digitando gli hashtag #cambieRAI e #prendiamolaparola sia su Facebook che su Instagram”.