Emanuele Macaluso: quello che in Spagna definiscono un hombre vertical. Comunista fin da adolescente e l’Italia è oppressa dal fascismo; dirigente sindacale della CGIL in Sicilia, nei giorni in cui ogni giorno un sindacalista, un dirigente della sinistra rischia una schioppettata di lupara; dopo quella scuola “militante”, l’approdo a Roma, voluto da Palmiro Togliatti, e via via tutto l’iter: comitato centrale, direzione, deputato, senatore; per anni tra i più stretti collaboratori di Enrico Berlinguer. Togliattiano, comunista, e tuttavia con invidiabile autonomia di pensiero. Ne fanno fede migliaia di articoli e decine di libri. Giornalista, scrittore, dirige una delle migliori stagioni de “l’Unità” e ne sa qualche cosa Sergio Staino, il dissacrante disegnatore che si permette in prima pagina un “Nattango” che fa storcere il naso al segretario e agli imbustati dirigenti del Partito. Appartiene a quella corrente che spregiativamente viene definita dei “miglioristi”, non rinnega il passato, ma non concede nulla al “presente”, e con sguardo lucido e disincantato (ma insieme appassionato) segue il “dire” e il “fare” della sinistra, ne diventa una implacabile e rigorosa coscienza critica. Quando il PCI si trasforma il PDS, DS, Univo, Partito Democratico, preferisce restar fuori, non si capacita di tanti contraddittori contorcimenti.

Chi scrive l’ha conosciuto e un poco frequentato negli anni della maturità: quando si ripensa al proprio passato, alle cose dette e fatte, a come si potevano invece dire e fare; a che cosa sarebbe potuto accadere se altro si fosse detto e fatto. La prima volta, a Montecitorio, era in compagnia di Leonardo Sciascia: entrambi siciliani al midollo, il dialogo era fatto di sguardi guizzanti, sorrisi, ammiccamenti. L’ultima, qualche mese fa: accompagnato da una troupe televisiva, per una lunga intervista su Leonardo Sciascia per “Tg2 Dossier”. Credo che sia l’ultima intervista televisiva rilasciata, o comunque una delle ultime.
Carico di anni e di esperienza, un Macaluso dotato di una rara capacità di giudizio, una lucida “lettura” di persone e cose. Val la pena di ricordarlo attraverso qualche passaggio di quell’intervista, aiuta a ricordare un passato recente che può spiegare qualcosa dell’“oggi”; e forse prefigura quello che attende “domani”.
“E’ stata una lunga amicizia, quella con Leonardo. Certo, abbiamo avuto anche dei momenti di scontro politico: era molto saldo, nelle sue convinzioni, e anch’io come lui. Però nessuno dei due, mai, anche quando eravamo in polemica, ha mai messo in discussione l’amicizia che ci ha sempre legato. Qualche anno fa ho voluto ricostruire questa nostra amicizia, e ne ho ricavato un libro, “Leonardo Sciascia e i comunisti”, dove racconto di questo nostro rapporto… Però, al di là di questo, c’è una cosa che mi preme, e la voglio dire soprattutto ai giovani, a chi certi giorni non li ha vissuti perché è nato dopo: Leonardo con i libri che ha scritto, con la sua anche giornalistica, penso ai suoi scritti sul “Corriere della Sera”, su “La Stampa”, o “L’Ora” di Palermo, ci manca. Ora che non ci sono più, lui e Pier Paolo Pasolini, si avverte un grande vuoto. Sciascia e Pasolini hanno animato le battaglie politico-culturali nel nostro Paese, come nessun altro ha saputo fare. Non ci sono più “firme” come quella di Sciascia o Pasolini… Leonardo, in particolare, protagonista con i suoi libri e i suoi articoli di ‘polemiche’ su un terreno che ancora oggi considero fondamentale, quello della giustizia. Aveva l’autorità, il coraggio di sostenere queste battaglie garantiste sulla giustizia, la sua è stata una voce fondamentale. E ha avuto un valore fondamentale nella formazione politico-culturale del nostro Paese: in cui quegli anni, quei dibattiti sulla giustizia hanno avuto un carattere e un senso che oggi purtroppo non vedo più. Da questo punto di vista Leonardo non è stato solo un grande scrittore, ma anche un grande italiano; al tempo stesso un uomo dell’Europa, ha incarnato con i suoi scritti e le sue battaglie politico-culturali, il meglio che questo Paese poteva esprimere”.
Lei dirigente del PCI, lui spesso critico feroce…
“Sappiamo tutti come sono andate le cose: lui non si è mai iscritto al PCI; ma in un certo periodo ha avuto rapporti di vicinanza con il partito; è stato anche candidato come indipendente al consiglio comunale di Palermo, ed eletto. Poi, dopo qualche mese, si è dimesso, per profondi dissensi con Achille Occhetto, che allora era il segretario regionale del partito in Sicilia. Sciascia era contrario al compromesso storico, e accusò Occhetto di contrattare con la Democrazia Cristiana di allora. Da allora il giudizio sul PCI si via via ha assunto toni sempre più aspri, e ci sono state polemiche molto dure, con il gruppo dirigente del partito. Alla fine, è approdato alle sponde del Partito, di cui è stato anche deputato nazionale ed europeo. Capisco che in quel partito si sia trovato a suo agio: nel Partito di Marco Pannella ha avuto la possibilità di esprimere i suoi convincimenti, sulla giustizia e il resto, senza alcun tipo di condizionamento o vincolo. Penso sia stata questa la “chiave” che ha trovato nei radicali. Vede: Leonardo era una persona gentile. Molte volte nella polemica era aspro. Però non era astioso. Aveva la capacità di recuperare sempre un rapporto, con le persone con cui polemizzava. Quando pensava di dire cose giuste, faceva ricorso a parole molto forti. Era la sua cifra: aveva convincimenti forti, soprattutto sul terreno della giustizia, sul terreno dei diritti. Quando c’era da polemizzare, lo faceva abbastanza duramente…”.

Quella sui “professionisti dell’antimafia”… Credo che quella l’abbia particolarmente ferito…
“E’ stata una cosa ignobile. Lo posso dire: una cosa vergognosa e ignobile, quella del cosiddetto Comitato Antimafia di Palermo…ne facevano parte alcuni personaggi che non voglio neppure nominare… Si sono permessi di definire Leonardo un quaquaraquà, perché aveva espresso un’opinione che non coinvolgeva tanto – era solo un esempio – Paolo Borsellino, quanto un metodo di affrontare la questione delle carriere dei magistrati…”.
Sciascia è stato oltraggiato anche da morto. Hanno detto che ‘Il giorno della civetta’ è un racconto che esalta il capo-mafia Mariano Arena, e fa piacere alla mafia, che sia stato scritto…
“Questa sciocchezza, purtroppo è stata detta da uno che è stato parlamentare della sinistra… E’ la stupidità più clamorosa che mi è toccato sentire su Leonardo. Quel libro, ‘Il giorno della civetta’, non a caso è stato tradotto in tutto il mondo, ha venduto milioni di copie: è il primo romanzo che ha fatto capire all’Italia e al mondo cos’è la mafia siciliana: l’idea che fosse una delinquenza organizzata, con personaggi che avevano un rapporto politico con la politica, ma anche con la popolazione. Perché vede, la grande mafia, quella che ha contato, aveva sì un rapporto politico con il potere, ma anche con la popolazione: i mafiosi risolvevano i problemi, erano una specie di tribunale per dirimere questioni e contrasti… Mariano Arena era anche questo. Se questo rapporto non c’è, si deve parlare di delinquenza più o meno organizzata; ma la mafia ha questa peculiarità… Con ‘Il giorno della civetta’ Sciascia ci fa capire che cos’è stata la certa mafia negli anni Cinquanta e Sessanta. Se non si comprende la diversità costituita dal rapporto con la politica, l’establishment, il popolo, non si capisce nulla della mafia; e soprattutto come mai vive e opera da più di cento anni”.
Lei ha avuto una dura polemica, a proposito di un libro di Sciascia, “Il contesto”…
“Consideravo ingiusto il cui rappresentava i comunisti. Però, poi, rileggendo il libro…Anche lì c’è qualcosa di profondo, che riguarda il modo d’essere la giustizia: credo sia questa l’angolazione fondamentale per leggere quel libro. E certamente ne consiglio la lettura”.

Oggi a proposito de “Il contesto”, nei termini usati anni fa?
“Ho ripensato ad alcune cose che allora scrissi. Non è un ripensamento opportunistico, non appartiene al mio modo di essere. Penso piuttosto che tutti debbano avere la possibilità di una ‘rilettura’ di posizioni assunte anni o decenni prima. Chi sostiene di aver avuto sempre ragione non mi convince: nessuno ha avuto sempre ragione. Ripensare e rimodulare i propri giudizi, credo che sia il modo giusto per un intellettuale”.
Quando ha accettato di candidarsi nel Partito Radicale: ne è rimasto sorpreso? Immagino che ne abbiate parlato…
“No. Mi ha raccontato che Pannella è andato da lui a Palermo. Proprio allo scadere della presentazione delle liste. Pannella era Pannella, sappiamo come era capace di coinvolgere le persone. Leonardo ha capito che in Parlamento avrebbe potuto fare quello che voleva in piena libertà, e soprattutto lo intrigava la vicenda Moro; infatti, una volta eletto ha fatto parte della commissione parlamentare, e ha scritto una bella relazione di minoranza… Questa credo sia stata la molla: era convinto che altrove avrebbe dovuto rispondere al Partito. Ma con Pannella non c’era un Partito; i radicali erano qualcosa di diverso. Leonardo aveva da rispondere solo alla sua coscienza, i radicali avrebbero accettato tutto quello che lui riteneva utile e giusto dire e fare. Cosa che effettivamente è accaduta…”.
La vicenda Moro: vi siete trovati su fronti opposti…
“Ancora oggi non mi convince la posizione assunta da Leonardo. Allora mi sono schierato per la ‘fermezza’, contro la trattativa… Ci ho pensato spesso, è una vicenda che mi ha toccato nel profondo… Penso che la fermezza sia servita per distruggere le Brigate Rosse. Sarà giusto, sarà sbagliato, ma questo è il mio convincimento, e non è quello di Leonardo… Nella sua relazione ci sono punti che non condivido, anche se dal punto di vista letterario è uno scritto bellissimo…”.
Cosa resta, oggi, di Sciascia?
“Resta il complesso della sua opera. Un patrimonio importante che ci ha lasciato è la sua battaglia per la giustizia. Mai come oggi si avrebbe bisogno di lui, di una grande personalità come la sua. Questo rimane. C’è come un vuoto, da quando se n’è andato, che nessuno ha saputo colmare…”.
Senatore, che la terra ti sia lieve.