“Sarà che anime di razza è un po’ che non ne fanno più”, ma la notizia della scomparsa di Stefano D’Orazio mi è arrivata come un calcio in pieno stomaco. Inaspettata, inopportuna, inammissibile. Io che i Pooh li ho conosciuti quando erano giovani, capelloni e compressi in certi jeans da togliere il respiro. Io che li ho applauditi al primo concerto live della mia vita, a L’Aquila, probabilmente uno dei pioneristici concerti nei palasport del nostro Paese, durante quelle estati indimenticabili e senza pensieri che si trascorrono dai nonni, quando non ero neppure un’adolescente ma possedevo le sembianze goffe di una diciottenne precoce.
Uno spettacolo nello spettacolo, con una scenografica tecnologia laser che fino a quel momento non avevamo visto neppure in ‘Guerre stellari’. Un sistema di effetti sofisticato che, insieme alla macchina del fumo, l’unica in assoluto sui palchi italiani, generava una sorta di tunnel che proiettava lo spettatore in un’esperienza surreale. Una serata elettrizzante, ancora oggi viva nella mia memoria, terminata in una pizzeria del centro storico con gli autografi di Red Canzian, Dodi Battaglia, Stefano D’Orazio e Roby Facchinetti sulla mia borsa e quel loro: “Ma davvero hai dodici anni?”.
In realtà li avrei compiuti da lì a qualche giorno, e quello spettacolo fantascientifico fu il regalo di compleanno da parte del mio allora giovanissimo zio Terzino, fan dei Pooh. Non ero mai stata a un concerto e, soprattutto, non ero allora consapevole di aver assistito a uno show tanto all’avanguardia nei suoni, negli effetti, nelle luci, nelle voci, e ancor meno di aver conosciuto professionisti di tale levatura. Un caso, una coincidenza trovarli a cena accanto al nostro tavolo. A ripensarci bene, non ero neppure cosciente di aver stretto la mano a coloro che avevano, già da allora, scritto una bella pagina di storia della musica italiana.
L’unico rammarico, quello di non aver avuto una macchina fotografica per immortalare i fab four nostrani in un unico e incommensurabile scatto! “Vorrei riavvolgere il nastro un po’”, e se mai dovessero inventare una DeLorean, promesso, ve lo farò avere.
Qualche mese dopo, ballai il mio primo lento, a circa mezzo metro di distanza di sicurezza, con un ragazzino dalle guance paonazze. Il singolare evento ebbe luogo nella sala parrocchiale del mio paese grazie alla collaborazione delle suore e a 1.400 lire ben spese per acquistare, alla Upim, il 45 giri di ‘Dammi solo un minuto’. Ma non raccontai a nessuno di aver conosciuto i Pooh, perché, con tutta probabilità, non sarei stata creduta.
Ma la vita, si sa, riserva tante sorprese e i Pooh li ho incontrati parecchie volte crescendo. Non soltanto nei loro concerti sempre più anticipatori di suoni e tecnologie, anche nei backstage dei Festival di Sanremo, quando li osservavo curiosa nella veste di produttori artistici, fino alla condivisione della platea vip con Lena Biolcati, allora prodotta proprio da D’Orazio e con la quale lavoravano i miei amici musicisti Toni Mione e Giampietro Iacobacci, che Stefano invitava sistematicamente a cena ogni fine spettacolo.
Stefano D’Orazio non era solo il batterista, il flautista e la voce dei Pooh. Stefano era il motore del gruppo, il metronomo, come ci fa notare Marino Bartoletti. Stefano era un amico a cui noi abbiamo affidato per decenni le nostre emozioni più profonde, le delusioni, le debolezze, le paure e le speranze, colui che insieme a Red, Dodi e Roby ha scandito la colonna sonora della nostra vita. Una persona perbene, come lo è, del resto, ogni componente dei Pooh, un’anima gentile e compassionevole e con un gran senso dell’ironia. Sempre disponibile a dare una mano, sempre alle prese con cani e gatti randagi che recuperava per strada, sempre con il sorriso. Uno che, per aver redarguito un carabiniere che con l’auto stava per investire una donna col suo bambino, si è fatto un giorno di carcere a Trieste. Tanto era grande il suo cuore e la sua vocazione al bene. “Il Robin Hood dei Pooh”, secondo la definizione dei suoi compagni di viaggio.
Nel 1971 l’incontro con questa grande “macchina della musica”’, quando sostituisce il grande Valerio Negrini su quella che lui chiamò “l’astronave”, e inizia a firmare brani come “Eleonora mia madre”, “Pronto, buongiorno è la sveglia”, “Io sto con te”, per citarne solo alcuni. Quella stessa astronave da cui è sceso nel 2009, dopo una gestazione di 3 anni, e con la quale ha realizzato qualcosa come 25 milioni di album venduti, 20 milioni di singoli, una prestigiosa collezione di 15 dischi d’oro e 46 di platino, e un elenco di 400 indimenticabili canzoni che cantiamo tutti e indistintamente da quasi mezzo secolo, oltre a 3500 concerti eccezionali in cui non sono mai stati secondi neanche alle star internazionali. Non soltanto canzoni d’amore ormai stampate nell’immaginario collettivo, ma anche brani di denuncia sociale ante litteram. Perché i Pooh erano davvero precursori dei tempi, di quel futuro che oggi è nel nostro passato. ‘Strumentalmente’ parlando, da Cherubini, a Roma, quando arrivavano loro si formava la fila di aspiranti sognatori per vedere quale strumento avrebbero comprato i Pooh, per chiedere consigli musicali a coloro che sono diventati il patrimonio immateriale della nostra vita: quarant’anni di storie e di canzoni, ciascuna legata a un preciso istante delle nostre esistenze.
Una famiglia, più che una band. Fino a quell’addio da Verona al suo pubblico, ma non ai suoi ‘fratelli’. Lo stesso palco sul quale annunciò, a sorpresa, la data delle sue prime nozze dopo cinquant’anni da scapolo.
Aveva detto e dato tutto con i Pooh, e non voleva più ripetersi, nonostante un distacco decisamente sofferto, nonostante l’immensa gratitudine nei confronti dei suoi compagni di lavoro e del suo amato pubblico per una carriera tanto gloriosa racchiusa in quel timido “Grazie, io scendo qui”. Una frase che oggi risuona come una terribile premonizione.
Lui che di strada ne aveva fatta tanta: da quella batteria di cartone ricevuta in regalo nel giorno di una befana degli anni ’50, e distrutta dopo poche settimane appena, a quell’LP dei Beatles che ebbe in prestito da una compagna di classe per qualche ora, e che registrò su un mangianastri per impadronirsi di ogni nota, ogni ritmo, ogni dettaglio. Gli esordi da batterista, i turni alla RCA, le comparsate al cinema, perfino accanto al mitico Totò, le serate al nascente Piper, e poi quella straordinaria prima vita da Pooh, seguita dalla seconda da Stefano D’Orazio, autore di musical di gran successo.
Clamoroso, infatti, il riscontro di pubblica e critica di Pinocchio, con 465 spettacoli e la replica a Broadway, negli States, a sottolineare quanto fossero creativi e bravi gli italiani.
E poi Aladdin, campione d’incassi della stagione 2010/2011 con oltre 200 repliche e le musiche di Red Canzian, Roby Facchinetti, Dodi Battaglia, rimasti sempre al suo fianco, e ancora Viva Zorro fino a Cercasi Cenerentola, una rilettura esilarante della favola più famosa di Walt Disney. Sono suoi i testi italiani del musical Mamma Mia degli Abba. “Far parlare in italiano le canzoni che erano state un cartello della mia adolescenza musicale, era davvero un grande privilegio”, dirà Stefano di quella commissione.
Musicista, autore, scrittore, produttore, scopritore di talenti e, soprattutto, uomo piacevolmente ironico come conferma la sua biografia dal titolo “Confesso che ho stonato”, andata in ristampa per la seconda edizione, e il libro “Non mi sposerò mai”, scritto all’indomani del matrimonio con la sua amata Tiziana Giardoni, giunto ormai alla quarta edizione.
Nel 2015, la celeberrima Reunion alla quale fu chiamato a partecipare anche Riccardo Fogli. Due concerti iniziali che divennero 40 in totale. Le “Ultime notti insieme”, per la gioia di tre generazioni di poohisti che cantavano a squarciagola ogni canzone con le lacrime agli occhi. Nonni, mamme, papà, nipoti uniti dalla stessa passione musicale, i Pooh. Poi ciascuno per la sua strada, ma sempre tutti per uno e uno per tutti.
Scriveva, scriveva tanto Stefano. Si ritirava nell’isola di Pantelleria e scriveva. Aveva una nuova opera nel cassetto, due romanzi e una commedia con Maurizio Micheli da terminare, ma il coronavirus aveva congelato tutto. L’inno alla speranza era arrivato con “Rinascerò, Rinascerai”, il brano scritto insieme a Roby Facchinetti, i cui proventi sono stati devoluti all’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, proprio la città di Roby, piegata in due dal Covid-19. Un brano che registra a sorpresa 13 milioni di download e viene tradotto in 10 lingue, giapponese incluso, e che oggi ci appare come una beffa del destino. In cura per una malattia autoimmune, Stefano D’Orazio era infatti ricoverato da qualche giorno presso il Columbus del Policlinico Gemelli di Roma, ma si è aggravato all’improvviso per complicanze dovute al coronavirus, lasciando noi infinitamente soli, e lui senza la possibilità di un conforto dei suoi amici, dei suoi cari, della moglie distrutta dal dolore.
Red, Roby e Dodi piangono un fratello, noi piangiamo un amico, uno con cui siamo cresciuti, ci siamo innamorati, siamo perfino invecchiati. Insieme ai Pooh Stefano è stato “un po’ del nostro tempo migliore”. Qualcuno di noi si è sposato con le sue canzoni, qualcun altro è diventato padre, qualcuna madre, e tanti anche nonni. Ci avete mai pensato a cosa sarebbero state le nostre estati senza i Pooh? Senza perle come Pierre, Uomini soli, Tanta voglia di lei, Noi due nel mondo e nell’anima?
La sua, la loro storia è la storia di tre generazioni di italiani e di un Paese che oggi più che mai ci appare perdutamente lontano.
Ha ragione Red Canzian quando ci racconta del calicanto, un fiore che pochi conoscono davvero, ma che apprezzano solo quando viene scoperto. Stefano era proprio come un calicanto…