
Una fotografia che ritrae una ragazza sorridente, un abito sobrio ed elegante, sullo sfondo un parco…Anni lontani: luglio 1943. Sono trascorsi tre anni, da quel discorso di Benito Mussolini che annuncia l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania. A quella folla ubriaca e in delirio, il capo del fascismo annuncia “l’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata…La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all’Italia, all’Europa, al mondo”.
Ai riluttanti, contrari Pietro Badoglio, Dino Grandi, Galeazzo Ciano e al generale Enrico Caviglia, il Duce replica sprezzante: “Mi serve un pugno di morti per sedermi al tavolo delle trattative”. Come è finita, lo sappiamo. Ma se guardiamo quella fotografia, l’espressione serena della ragazza; la bellezza del luogo che si indovina, nulla lascia immaginare che si consuma una delle più immani tragedie del ‘900.
Sono già trascorsi quasi cinque anni da quando, il 5 settembre del 1938 il re Vittorio Emanuele III firma uno dei decreti più infami della storia d’Italia: quelle leggi razziali volute dal fascismo con le quali gli ebrei sono esclusi da qualsiasi servizio e attività pubblica. Agli ebrei italiani – una comunità di circa 50mila persone – viene impedito, tra le altre cose, di potersi sposare con altri italiani. Non possono lavorare in uffici pubblici, banche o enti statali; non possono insegnare e mandare i figli a scuola; non possono avere alle loro dipendenze personale non ebreo. Improvvisamente quella comunità tra le più antiche vissute in Italia – e tanti dei loro membri sono fascisti, credono in Mussolini – vengono dichiarati nemici della razza superiore, quella “ariana”; sono cittadini di serie B, non sono graditi allo Stato, gli italiani “per bene” hanno il dovere di evitarli…
Eppure nulla di tutto questo si può immaginare, nell’osservare quella fotografia.
La ragazza ritratta si chiama Liliana Segre. Ha 13 anni quando viene scattata. Cinque mesi dopo sarà deportata, assieme a migliaia di altri ebrei nel terribile campo di sterminio di Auschwitz: un enorme complesso di campi di concentramento vicino a una cittadina polacca, Oświęcim, che i tedeschi chiamano Auschwitz, come il lager.
Oltre all’originario “campo” (Auschwitz I), i nazisti, durante il periodo dell’Olocausto, ne costruiscono altri, tra cui il famigerato Birkenau (Auschwitz II); ci sono poi il campo di lavoro di Monowitz (Auschwitz III), e altri 45 sotto-campi costruiti durante l’occupazione nazista della Polonia: i deportati vengono utilizzati allo stremo per lavorare nelle diverse industrie tedesche costruite nei dintorni.
Auschwitz è il campo di sterminio più grande tra quelli realizzati dai nazisti. Una macchina infernale, diabolica, nel progetto di “soluzione finale della questione ebraica“. In breve tempo diventa il più efficiente centro di sterminio; merita pienamente la sua sinistra fama di simbolo universale del lager: una terrificante “fabbrica della morte”. In quel luogo di orrore e di orrori, mentre inesorabile l’Armata Rossa dell’Unione Sovietica si avvicina ad Auschwitz, nel gennaio del 1945, e la guerra si avvia finalmente a conclusione, i nazisti massacrano la maggior parte della popolazione del campo a ovest, con una marcia della morte verso altri campi in Germania e Austria.
Le truppe sovietiche liberarono il campo il 27 gennaio 1945. Quel giorno, dal 2005, viene ricordato come il Giorno della Memoria.
Non tutti i responsabili di quello sterminio hanno pagato per i loro crimini. Molti ex nazisti, ricattati, sono stati reclutati da Mosca come agenti segreti. Lo ha rivelato anni fa il settimanale tedesco “Spiegel”: alcuni ex gerarchi delle SS si sono visti risparmiare processi e condanne in cambio dei loro “servizi”.
Tra loro, Josef Settnik, ex SS, dal 1942 di servizio ad Auschwitz: dopo la guerra si presenta al primo colloquio con la Stasi, la polizia segreta della Germania comunista, dopo aver detto addio a sua moglie; immagina una condanna a morte, nel migliore dei casi l’ergastolo. Gli agenti dei servizi segreti comunisti tedeschi gli propongono un accordo: avrebbero dimenticato i crimini di cui era responsabile se fosse stato disponibile a spiare i membri della sua parrocchia cattolica.
Anche per Johannes A., SS attivo ad Auschwitz, la Stasi non solo “dimentica” i crimini, ma gli permette di fare una brillante carriera da insegnante di liceo.

August Bielisch viene scoperto dalla Stasi molti anni dopo: nel 1971; dichiara di aver fatto solo il guardiano, di non aver mai visto o saputo nulla. Messo alle strette, collabora. Scrive: “Mi è chiaro che per aver taciuto sulla mia appartenenza alle SS e la mia attività di guardiano nel campo di sterminio di Auschwitz posso essere messo sotto processo. Attraverso la mia disponibilità a collaborare in modo sincero e aperto con il ministero per la Sicurezza (ovvero, la Stasi), voglio farmi perdonare i miei errori”.
Non tutti se la sono cavata a buon mercato. Nel 1964 Hans Anhalt, braccio destro di Joseph Mengele, l’“angelo della morte”, di Auschwitz, viene condannato all’ergastolo. Nel 1966 il comandante delle SS Horst Fischer è giustiziato, dopo essere stato riconosciuto colpevole di decine di esecuzioni ordinate direttamente da lui. Più che altro “processi-spettacolo”: servono per dimostrare la volontà irriducibile della Germania comunista di combattere il nazismo. Puniscine uno, si potrebbe dire, per “perdonarne” cento. Decine e decine, i criminali di Hitler che si sono visti offrire accordi e impunità.
“Nel caso di Auschwitz” spiega la storica Annette Weinke allo “Spiegel”, “si vede come operava la Stasi: alcuni venivano condannati, altri reclutati come spie, ad altri non accadde proprio nulla”. Molti sono letteralmente scomparsi, e nessuno si è mai affannato a cercarli. Sempre lo “Spiegel”: “E’ una verità accertata che dietro la facciata antifascista la Germania Est scese a patti con molti ex nazisti”. Lo storico Andreas Eichmüller calcola che di 6.500 SS attivi nel campo, appena 29 sono stati processati, nelle due Germanie.
Il più noto, tra quanti sono rimasti impuniti è Joseph Mengele, nonostante la serrata caccia dei servizi segreti israeliani. Finita la guerra, gli vengono forniti, con modalità non chiarite, documenti falsi da parte del comune italiano di Termeno, in Alto Adige, e assume l’identità di Helmut Gregor. Nel 1949 si imbarca nel porto di Genova su una nave diretta in Sud America. Arriva in Paraguay, vi soggiorna per alcuni anni. Poi si rifugia in Argentina, infine in Brasile, dove vive per una ventina d’anni. Sembra sia morto nel 1979 a 67 anni, per attacco cardiaco. Sepolto nel cimitero di Nostra Signora del Rosario, a Embu das Artes, sotto la falsa identità di Wolfgang Gerhard, la sua tomba viene scoperta nel 1985. L’esame del DNA, confrontato con quello del fratello, accerta, con una probabilità del 99,69 per cento, che si tratta effettivamente di Josef Mengele.
Un altro criminale nazista che per anni riesce a farla franca, è Adolf Eichmann, uno dei principali responsabili della deportazione degli ebrei di tutta Europa durante l’Olocausto. Nazista convinto, membro delle Gestapo, diventa direttore del dipartimento incaricato delle deportazioni e di altre “questioni ebraiche”. In breve, è una figura centrale nella deportazione di oltre un milione e mezzo di ebrei europei verso i centri di sterminio della Polonia e della parte di Unione Sovietica occupata dai tedeschi. Nel gennaio 1942 partecipa alla Conferenza di Wannsee dove viene pianificata la totale eliminazione degli ebrei europei. Eichmann e il suo staff organizzano la deportazione di centinaia di migliaia di ebrei dalla Slovacchia, l’Olanda, la Francia e il Belgio. Nel 1943 e nel 1944, viene pianificata la deportazione degli ebrei dalla Grecia, dal Nord Italia e dall’Ungheria; Eichmann assume un ruolo diretto nelle deportazioni dall’Ungheria: circa 440.000 ebrei.
Alla fine della guerra Eichmann viene preso in custodia dalle forze americane, ma nel 1946 riesce a fuggire. Grazie all’aiuto di alcuni funzionari della Chiesa Cattolica, Eichmann si rifugia in Argentina, dove vive sotto il nome di Ricardo Klement. Nel 1960, agenti del MOSSAD israeliano lo individuano e rapiscono, riuscendo a portalo in Israele, dove viene processato. Il 15 dicembre 1961, è riconosciuto colpevole di crimini contro il popolo ebraico, e impiccato a mezzanotte del 31 maggio 1962: unico caso, nella storia di Israele, in cui sia stata applicata la pena capitale. Le sue ceneri disperse in mare.
Questo, se così si può dire, il contesto. Ora si può tornare alla ragazzina della fotografia. Liliana “vive”, letteralmente questo orrore. Lo vive e sopravvive. Oggi ha 90 anni. Il 19 gennaio 2018 il presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’ha nominata senatrice a vita.

Nata a Milano il 10 settembre 1930, cresce senza la madre, Lucia Foligno, morta un anno dopo la sua nascita, uccisa da un cancro. Nel 1938 lei e i suoi parenti vengono colpiti dalle leggi razziali fasciste. Liliana frequenta la scuola elementare “Fratelli Ruffini”. Senza avere neppure la possibilità di capire quello che accade, da un giorno all’altro, si trova espulsa. Con l’ inizio della guerra e l’intensificarsi delle persecuzioni razziali, nel dicembre 1943, quando il Nord Italia è occupato dalle truppe tedesche, i Segre cercano di raggiungere la Svizzera, senza riuscirci. Il 30 gennaio 1944, insieme alla famiglia viene deportata in treno da Milano ad Auschwitz; un viaggio terribile, durato sette giorni. Separata dal padre, è mandata a lavorare presso la fabbrica di munizioni Union, di proprietà della Siemens. Il padre Alberto muore nell’aprile del 1944, i nonni paterni, Giuseppe e Olga, deportati nel maggio di quell’anno, sono uccisi al loro arrivo ad Auschwitz, a giugno. Il primo maggio 1945, a pochi giorni dalla definitiva sconfitta nazista, Liliana viene liberata. E’ una dei 25 italiani di età inferiore ai 14 anni deportati nei lager nazisti che riescono a sopravvivere, su un totale di 776.
Finita la guerra, Liliana trova la forza per andare avanti; si costruisce una famiglia, non parla mai pubblicamente della sua deportazione fino agli inizi degli anni Novanta. Poi il blocco si scioglie, e da allora accetta di intervenire, parla nelle scuole e ovunque viene invitata; diventa testimone anche a nome di chi non è tornato; o di quanti, volendo dimenticare, non se la sentono di raccontare quella tragedia vissuta in prima persona. In oltre trent’anni ha incontrato circa duecentocinquantamila studenti. La vergogna di quelle persecuzioni, in parte vengono sanate il 19 gennaio 2018, quando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella la nomina senatrice a vita.
“Sono solo una nonna”, dice spesso. Abita a Milano, un appartamento non molto lontano dal civico 55 di corso Magenta 55 dove è tornata nell’agosto del 1945: aveva 15 anni, pesava 32 chili. Li tre “pietre d’inciampo”, dedicate al padre Alberto, e ai nonni. Nella Shoah ha perso ha perso altri sei familiari: quattro cugini, Rosa Spiegel con il figlio Felice, e Rino Ravenna con il fratello Giulio. Lei, è sopravvissuta a quattro campi di sterminio: Auschwitz-Birkenau; Ravensbrück; uno Jugendlager, infine Malchow.
Non la sentirete mai pronunciare una parola di recriminazione, di accusa; ma neppure di perdono. Si limita a raccontare, e poi chi ascolta ne tragga le conseguenze. chiama.
Il 5 giugno del 2018, chiede la parola. Il Senato ascolta in reverente silenzio questa donna anziana e all’apparenza fragile, ancora visibile il numero di matricola tatuato sul braccio: 75.190. “Ho conosciuto la condizione di clandestina e di richiedente asilo», ha scandito, «ho conosciuto il carcere, ho conosciuto il lavoro operaio, essendo stata manodopera schiava minorile in una fabbrica satellite del campo di sterminio. Voglio aiutare gli italiani di oggi a respingere la tentazione dell’ indifferenza verso le ingiustizie e le sofferenze che ci circondano. A non anestetizzare le coscienze, a essere più vigili, più avvertiti della responsabilità che ciascuno di noi ha verso gli altri”.
Racconta che arrivata ad Auschwitz viene subito separata dal padre. Capisce subito che cosa accadrà di lì a poco; piange giorno e notte, per una settimana. Poi, per anni non versa più una lacrima: “Del pianto, quando non è consolato da nessuno, si impara a fare a meno”. Piange di nuovo nel 1953, quando è nasce il suo primogenito, si chiama anche lui Alberto. “Invidio”, dice, “chi riesce a sfogarsi piangendo, e anche i credenti perché hanno qualcuno che deterge le loro lacrime. Io non ho avuto né l’uno, né l’altro”.
Racconta della famiglia, che è stata sterminata: “Mio nonno era un milanese doc. I miei non frequentavano la sinagoga, eravamo agnostici. Di fatto, scoprii di essere ebrea con le leggi razziste del 1938. Mio padre era un ex ufficiale, un ragazzo del ’99, aveva combattuto nella prima guerra mondiale. Lo zio Amedeo, decorato con la croce di guerra a Caporetto, è stato un fascista della prima ora. Non aveva figli, dopo la Shoah mi ha adottato. È morto a 88 anni. Per quarant’ anni l’ho sentito urlare ogni notte sempre per lo stesso incubo: tentava di tirare giù i genitori dal vagone piombato, ma non ci riusciva”.
Liliana prima si nasconde a Ballabio, poi a Castellanza, presso due famiglie cattoliche, i Pozzi e i Civelli, rischiarono la fucilazione per tenerla con loro. Nell’inverno del 1943 il padre decide di rifugiarsi in Svizzera. Al confine sono intercettati da una sentinella, portati nella gendarmeria di Arzo, in Canton Ticino. Li rispedirono in Italia. E’ la fine. Sono arrestati da finanzieri fascisti. Liliana viene incarcerata prima a Varese, poi Como. A San Vittore a Milano si riunisce con il padre: “Cella 202, quinto raggio”, ricorda.
Quaranta giorni. La notte Liliana si sveglia all’improvviso, il padre inginocchiato accanto a lei, singhiozza e chiede perdono per averla messa al mondo. Poi, la terribile esperienza del lager; e l’incredulità che legge negli occhi dei soldati russi quando la liberano: non riescono a credere all’orrore che si presenta dinanzi ai loro occhi. Ma c’è anche qualcosa di peggio: l’indifferenza: “Ricordo gli ufficiali nazisti che dopo la sconfitta si tolsero la divisa come fosse un camice da lavoro per voltare pagina con terribile naturalezza”.
E’ l’indifferenza che ancora oggi la atterrisce: “Regna sovrana ora come allora. Non è questione di essere cattivi o buoni. È una regola che quando qualcosa non ti riguarda personalmente, lasci perdere. Questo è uguale in tutti i tempi. Certo, i non indifferenti ci sono sempre. Oggi si battono perché dei poveri disgraziati non siano lasciati ad affogare in mezzo al mare e non muoiano di gelo tra le montagne. Sono pochissimi, ma ci sono. È questa l’unica analogia con l’ Italia di 80 anni fa quando furono promulgate le leggi razziste. Io sono stata scheletro e ho avuto fame da matti, sono stata schiava, richiedente asilo, che mi è stato negato, e clandestina sulle montagne con documenti falsi. Tutte queste cose le ho provate sulla mia pelle, so cosa significano e non riesco a dimenticarle. E ho visto persone essere uccise non perché avessero fatto qualcosa ma per la sola colpa di essere venute al mondo. Oggi la situazione per i richiedenti asilo è diversa, non tutti rischiano la morte come noi, ma non possiamo non essere allarmati per alcune leggi che toglieranno loro non solo il diritto di asilo, ma anche un tetto sulla testa per ripararsi dal gelo invernale”.
Da senatrice, Liliana Segre ha presentato un disegno di legge “semplice” e tuttavia di grande pregnanza politica, culturale, umana: perché sia istituita una commissione ad hoc per contrastare le parole di odio, razzismo, intolleranza, anche nella politica. Lo hanno firmato molti altri senatori, ma c’è anche chi ha avuto il coraggio di contestarlo, e nei social media, una quantità di “leoni della tastiera”, profittando dell’anonimato, si sono prodotti in offese, ingiurie, minacce.

Il Presidente Sergio Mattarella con la Senatrice a vita Liliana Segre nel corso della visita al Memoriale della Shoah (Foto Quirinale.it)
Nonostante tutto, riesce ad essere ancora ottimista, e a guardare fiduciosa nel futuro: “Incontro spesso migliaia di ragazzi. Alla fine, mi dico sempre che se almeno uno di loro si ricorderà di quest’incontro è a lui che ho parlato e lui diventerà candela della memoria. Così avrò seminato una goccia nel mare. Ora l’antisemitismo è tornato, dopo la seconda guerra mondiale c’era, ma covava sotto la cenere. Quindi i sei milioni di vittime dell’Olocausto sono morti invano? Io ce la metto tutta per raccontare cosa succede quando si addita un capro espiatorio”.
Di tutti gli articoli della Costituzione italiana dice che il preferito è il tre, perché è stato pensato e scritto da persone oneste: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Se è consentita una chiosa marginale: si comprende bene lo spirito con cui i padri costituenti hanno avuto cura di scrivere questo articolo. Ma oggi, passati più di settant’anni, forse sarebbe il caso di eliminare quel “razza”. Ammettere che non c’è distinzione di “razza”, equivale ad ammettere che esistono. Val sempre la pena di ricordare Albert Einstein, cui venne chiesto a quale razza apparteneva. Rispose: “Umana”.