Solo il tempo farà chiarezza sulla improvvisa “conversione” all’islamismo di Silvia Romano, durante la segregazione in Kenya e Somalia, durata 18 mesi. E forse nemmeno quello, il tempo, lo renderà possibile, a lei stessa prima che a noi, cioè al pubblico. Una conversione reale, oppure indotta? E quale la dinamica, durante l’abbrutimento della prigionia in mani tanto ostili?
Una distanza abissale separa l’immagine della ragazza rientrata in Italia con la larga veste in stile ospedaliero sino ai piedi e il capo ricoperto dal velo islamico appena impreziosito da un ricamo, da quella che conoscevamo: appena laureata, tailleur, orecchini, sorridente. Un altro sguardo.
Non l’unico cambiamento, anche se il più appariscente. Tra le tante pronunciate sulla conversione e il periodo di segregazione, è mancata da parte di questa ragazza una parola sull’affetto con cui gli italiani hanno sempre seguito il dramma e sull’impegno profuso dallo Stato per la sua liberazione. Elementi che forse potevano dare conforto, a lei e alla famiglia, e che sono stati utili alla suo ritorno a casa.
E’ stata lei – questo il racconto – a chiedere una copia del Corano, dopo i primi tempi in cui era stata molto male e aveva temuto di morire, poi aveva deciso di resistere, di farcela, ed è andata avanti. Nonostante tutte le traversie subite, il cambio delle prigioni, le giornate trascorse all’interno di stanze sempre chiuse, i lunghi trasferimenti, persino otto ore a piedi da un luogo all’altro. Del resto, ha voluto ripetere, è stata «trattata bene», non ha «subìto violenze», né è stata indotta a «sposare qualcuno dei carcerieri o ad avere rapporti», un’illazione diffusasi non si sa su quali basi, e infine, al di là di ogni dubbio, non è «incinta».
L’argomento della conversione religiosa in condizioni tanto precarie e difficili è diventato subito dominante. Sfruttato dalla politica come pretesto per la ripresa della propaganda anti-immigrati (in quanto islamici anche loro); cavalcato nei social con disprezzo, sino ai più pesanti insulti: un vomito inqualificabile sulla ragazza, la sua giovane vita, la sua vicenda così straniante. Per tanti aspetti ingiudicabile.
Cosa sia accaduto durante il periodo di prigionia potremo forse scoprirlo, a fatica, perché tutto dipenderà dalle sue parole, mentre pochi saranno gli elementi che gli investigatori raccoglieranno dall’esterno. A parte, si intende, le notizie ben note sulle bande di criminali che infestano quella zona tra Kenia e Somalia, autori di sequestri, atti di terrorismo, stragi di innocenti, perché ci si sono messi in tanti. Informazioni che la dicono lunga sulla crudeltà dei rapitori.
La suddivisione dei compiti, la vita umana come merce di scambio, priva di valore. Quelli che hanno individuato la preda, gli altri che hanno realizzato il sequestro, poi gli intermediari, i carcerieri e infine i committenti. E poi tutti quelli delle trattative, chi ha mantenuto i contatti, chi ha trasportato Silvia di qua e di là, fino al luogo dello scambio a 30 km da Mogadiscio, quando infine l’hanno presa in consegna gli uomini dei Servizi. La vita di questa giovanissima ragazza in cambio di qualche milione di euro (dai due ai quattro, si dice), fondi riservati, di cui non rimarrà traccia, se non negli acquisti di nuove armi, nei rifornimenti di esplosivo e materiali di sostentamento, da utilizzare in altre imprese terroristiche.
Molto più complicato sarà capire cosa sia accaduto nella mente di Silvia prima di diventare Aisha. Prima che tutto crollasse e che si aggrappasse al Corano, che forse non aveva mai preso in mano prima, unico spiraglio in quella situazione opprimente. Non basteranno le indagini a svelarcelo e nemmeno le scelte che la ragazza potrà fare in futuro, come confermare la conversione o rinnegarla.
Sembrerebbe questa la via di uscita più chiara e fattibile: ora che è libera, e non ci sono condizionamenti, potrà dire come sono andate le cose. Troppo semplice. Sarebbe persino liberatorio rispetto ai dubbi che comprensibilmente si affacciano alla mente di ciascuno. Asfa Mahmoud, l’imam di Milano, ha osservato: «Nelle mani di gente assetata di sangue, difficile credere ad una conversione sincera».
Ma non sappiamo se accadrà, se sarà così immediato scavare dentro le proprie scelte, provare a mettere una distanza da tutto per rivedersi più da vicino. Quale rapporto si crea tra l’individuo e l’angoscia, tra la vittima ed il carceriere? Soprattutto qual è il passaggio mentale, emozionale che spinge la vittima ad abbracciare proprio l’ideologia distruttiva del suo carnefice?
La mente può rimanere imbrigliata a lungo, anche per sempre. Accadde la stessa cosa a Amanda Lindhout, la reporter australiana sequestrata da una cellula islamica, insieme a Nigel Brennan nell’agosto 2008, e liberata solo nel novembre 2009 dopo una prigionia brutale, in cui fu sottoposta a sevizie, stupri, vessazioni. Dovettero passare molti anni prima di dichiarare che si era «convertita per sopravvivere», dopo che aveva pensato al suicidio per uscire dall’agonia, e aveva cercato qualsiasi mezzo per farla finita, senza riuscirci. Chissà se Silvia, ora che ha più tempo, avrà voglia di leggerne la storia.
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