Sorride. Un sorriso melanconico, di chi si sforza. Il sorriso di chi sa di fare una cosa giusta, e che va fatta; tuttavia non è contenta di farlo, di doverlo fare. Vorrebbe poterne fare a meno; invece è costretta a farlo, obbligata: dalla sua coscienza.

Shohren Bayat ha 32 anni, iraniana; è tra le maggiori esperte internazionali di scacchi (arbitra internazionale, prima donna iraniana e asiatica al mondo a ricoprire tale carica). Quello che sente di dover fare è un “piccolo”, grande gesto: lasciare, mentre a Shanghai è in corso un torneo internazionale, che il velo le scivoli dal viso e finisca sulle spalle; non muovere un muscolo per rimetterlo dove altri vogliono stia. Starsene a capo scoperto, “libera”.
E’ un semplice gesto, un attimo, “fissato” da fotografie che in pochi minuti arrivano nelle redazioni dei giornali di mezzo mondo, nelle televisioni, pubblicate sui social.
Per questo semplice gesto di un attimo, Shohren nel suo paese rischia il carcere. Implacabile, la gogna mediatica, alimentata dal regime; e mille dicerie sul suo conto.
Racconta: “Ho acceso il cellulare e ho visto che la mia foto era ovunque. Sostenevano che non indossavo il velo e che volevo protestare contro l’hijab“.
Ha paura, Shohren? Certo che ha paura. Come si fa a non averne? “Ci sono tante persone in carcere in Iran, proprio per il velo. E’ una questione molto seria. Forse vogliono fare di me un esempio“.
Per questo, la decisione di non tornare; per essere finalmente libera di poter indossare i vestiti che vuole senza che nessuno dica quello che si può o non si può mettere. Shohren l’hijab non lo accetta: “È contro le mie convinzioni. Le persone dovrebbero avere il diritto di scegliere il modo in cui si vogliono vestire. Nessuno dovrebbe obbligarle. Ho tollerato il velo perché vivo in Iran. Non avevo altra scelta“.
La Federazione iraniana degli scacchi pensa bene di chiederle di “scrivere qualcosa“, sotto forma di scusa, e in difesa del codice di abbigliamento voluto dal Paese. Shohren non ci pensa nemmeno, risponde che semmai è la Federazione che si deve mobilitare per garantirle adeguata protezione. La Federazione ovviamente non muove un dito.
“Quello che mi disturba davvero“, dice Shohren, “è che il mio abbigliamento abbia oscurato le mie conquiste come donna e come iraniana. Nessun’altra donna in Iran ha raggiunto il mio livello. Ma l’unica cosa che sembra interessare è il mio hijab“.

Kimia Alizadeh è un’atleta iraniana, una campionessa di taekwondoo. Ventun anni, è una gloria dello sport iraniano: l’unica del suo Paese ad aver vinto una medaglia olimpica: medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016.
Kimia è scappata dall’Iran. Dal suo rifugio denuncia le ingiustizie e le bugie del regime. Con un lungo post su Instagram, accusa l’Iran di avere un sistema ipocrita che umilia i suoi atleti, usandoli per fini politici. Lasciare il suo paese è “una decisione molto difficile. Mi sento molto triste perché mi mancherà la mia famiglia, anche se togliermi il velo significa poter essere me stessa. Se avessi la possibilità di tornare in Iran, ovviamente sarei felice, ma non so cosa mi succederebbe“.
Nata a Karaj, la quarta città più popolosa dell’Iran dopo Teheran Mashhad e Esfahan, Kimia è conosciuta come “lo Tsunami”, per la sua forza, la sua energia, la sua determinazione in una disciplina che domina con straordinaria sicurezza.
Sembra alma, parla lentamente, intuisci che dentro è un tumulto di emozioni; forse è la sua gara più difficile: “Lasciatemi cominciare con un messaggio di addio. Sono una delle milioni di donne oppresse in Iran, con cui hanno giocato per anni. Mi hanno portato dove volevano. Ho indossato quello che dicevano. Ogni frase che mi hanno ordinato di dire, l’ho ripetuta. Ogni volta che lo hanno ritenuto opportuno, hanno sfruttato: il merito del mio successo andava sempre ai manager. Non contavo nulla per loro. Nessuno di noi era importante per loro, eravamo solo marionette”.
Una doppia ipocrisia: “Il regime celebrava le mie medaglie, al tempo stesso criticava aspramente lo sport che ho aveva scelto. Dicevano: la virtù di una donna non è di allungare le gambe!”.
Per le donne, l’Iran è una specie di inferno: “La nostra condizione, nello sport è fatta di repressione e violenza: a noi è ancora vietato l’accesso agli stadi. Il taekwondo è una delle discipline più praticate e seguite in Iran, ma per le donne è ancora molto faticoso affacciarsi a questo sport, si devono vincere antichi preconcetti, duri a morire, basati sulla discriminazione”.
Per questo decide di lasciare il paese: “Non voglio più sedermi al tavolo dell’ipocrisia, delle bugie, dell’ingiustizia e dell’adulazione, non voglio essere complice della corruzione e delle menzogne del regime di Teheran. Prendere questa decisione è stato più difficile che vincere l’oro olimpico…Io resterò sempre una figlia dell’Iran ovunque andrò”.
Repressione e violenza, per le donne iraniane, e non solo nello sport. Una delle ultime restrizioni riguarda le punizioni più pesanti per le donne che sui social diffondono fotografie di sé stesse senza velo: si rischiano fino a dieci anni di carcere. L’avvertimento viene dal capo della Corte rivoluzionaria di Teheran, Mousa Ghazanfarabadi: “In base alla legge, i contenuti che mirano a una cooperazione con Stati ostili sono proibiti. Fotografarsi senza velo è infatti considerato un gesto vicino alla cultura ostile dei paesi occidentali“.