Sharon Tate bellissima attrice e moglie di Roman Polanski – morì a soli 26 anni – per mano di adepti della Manson Family.
Era la notte fra l’otto ed il nove agosto del 1969.
Quattro hippies dissociati e dediti all’uso di droghe – manipolati e psicologicamente indottrinati da Charles Manson.
Sono passati cinquanta anni dall’eccidio di Cielo Drive e recentemente, con il film Once Upon a Time in Hollywood di Quentin Tarantino, con Rick Dalton e Cliff Booth, interpretati da Leonardo Di Caprio e Brad Pitt e Margot Robbie nel ruolo di Sharon Tate, si è tornati a parlare di lei e della sua fine orrenda; anche se Tarantino ha voluto offrirle una pietosa via di salvezza.
Ancora oggi non so perché sia successo.
All’inizio pensai ad un altro brutto sogno.
Come quella volta – mesi fa – in cui nel cuore della notte mi svegliai con la terribile percezione di una sagoma oscura e bassa che circolava nella mia stanza da letto.
Ricordo che la seguii lungo le scale che portavano alla cucina; di colpo alla figura buia
se ne aggiunsero altre tre: anche esse sconosciute e minacciose – seppur ferme come pezzi in una scacchiera – in attesa di una mia mossa.
Ero paralizzata dal terrore e mi domandai se stavo sognando.
Non feci in tempo a realizzare nulla se non che mi comparve l’immagine statica – come una fotografia – di quattro corpi sanguinanti legati come agnelli sacrificali alle travi del soffitto.
Una ero io, di certo.
Riconobbi subito il volto di Jay a fianco a me e agli altri due – dal volto sconosciuto: eravamo tutti morti.
Mi svegliai di colpo – madida di sudore – era stato solo un sogno ed io ero viva.
Questo è l’incubo che raccontai al giornalista Dike Clainer quando – qualche tempo prima – mi chiese se credessi nel paranormale o nelle premonizioni.
Lui scriveva sul magazine “Faith” ed io gli stavo raccontando quello che – a distanza di tempo – mi accadrà.
Ora so che fu tutto vero – perché ci sono io a terra – seminuda con una corda attaccata al collo e con l’altra estremità di essa – attaccata al collo di Jay.
Accanto a noi – come statue cadute dal vento – ci sono Wojciech Frykowsky (detto Fryk) ed Abigail Folger – mia amica e sua compagna.
E’ l’alba del 9 agosto 1969 e così ci ha ritrovato Winfred Chapman – la nostra (mia e di Roman) cameriera.
Non so ancora perché siamo stati uccisi.
Per odio? Per noia? Perché ricchi e famosi? Perché era destino così?
Chissà.
Io non l’ho ancora capito ed anche se adesso ricordo tutto in modo indolore – non ho dimenticato alcun particolare di quella sera: la surreale consapevolezza che quel corpo dilaniato dalle lame ed immobile – fosse proprio il mio e che riuscissi ad osservarmi nei dettagli senza sentir più alcun dolore.
Io sono stata l’ultima a morire – quello lo ricordo bene.
“Fryk” (Wojciech Frykowski) fu il primo.
Strafatto di droghe ed alcol e collassato sul divano del salotto – ebbe la fortuna di morire nel suo stato di incoscienza.
Un colpo di pistola – una calibro 22 e si trovò a vagare nella stanza perplesso circa ciò che gli era accaduto qualche minuto prima.
Jay fu il secondo.
Quando le oscure figure – fra urla, calci, sputi ed insulti – irruppero nella mia casa noi eravamo tornati da una delle tante cene a “El Coyote” – il mio ristorante preferito a Los Angeles.
Avevamo mangiato le loro specialità messicane ed i miei amici mi avevano fatto ridere un sacco – era da molto che non lo facevo così liberamente.
Loro avevano bevuto – io mi ero concessa solo un sorso di vino dal calice di Jay.
Ero incinta di otto mesi del bambino di mio marito: Roman Polansky e nostro figlio era la cosa più importante per me.
Mi sono sempre pensata madre.
Io sono nata in Texas – da due genitori uniti e solidali, una famiglia old style.
Abbiamo sempre viaggiato molto – in giro per il mondo – per il lavoro di papà: un militare di carriera ma la nostra casa, la nostra famiglia, le nostre radici sono sempre state la cosa più importante per me.
Devo a loro – ai miei genitori – la riconoscenza dovuta della figlia (io) che è stata assecondata nel suo sogno: ho sempre voluto diventare una attrice.
Vinsi molti concorsi di bellezza – feci tanti provini per pubblicità e promozioni televisive.
Piccole parti che mi spinsero sempre di più in questo folle mondo – nel quale galleggiavo schivandone i pericoli: non mi sono mai fatta di nulla, io che ero cresciuta a granturco e pollo fritto.
Le luci, la ribalta, il successo – right – erano tutte cose che desideravo – però io sognavo anche di diventare madre ed occuparmi del mio bambino.
Ricordo il momento in cui dissi a Roman di essere incinta.
Ricordo la delusione sul suo volto e – di riflesso – sul mio.
Nei rapporti è sempre così: c’è sempre qualcuno che non si sente abbastanza pronto per diventare genitore.
Nel mio matrimonio – quella sicura di voler tenere il bambino – ero io; Roman alla fine mi aveva solo assecondato.
Io rincorrevo una famiglia, la stabilità.
Lui rincorreva i premi cinematografici e la sua libertà.
Erano mesi che Roman doveva rincasare; ma c’era sempre una urgenza che lo impediva: un incontro importante di lavoro o un riconoscimento da ritirare.
La sera in cui è accaduto tutto, Roman era a Londra – ad un party.
Non gliene faccio una colpa, anzi.
Se fosse stato presente – le figure oscure che ora ci stanno martoriando – avrebbero preso pure lui.
E’ stato tutto relativamente veloce eppure così crudele ed inumano.
Penso a Jay.
Jay (Sebring) mio ex fidanzato ed ora grande amico – fu il secondo a subire la mattanza.
Ricordo le sue ultime parole: “Per pietà, Sharon aspetta un bambino. Facciamo tutto quello che volete – ma non fatele del male”.
Un calcio lo colpì in pieno volto, poi un altro ed un altro.
Col volto riverso sul pavimento – vidi una ragazza con lo sguardo invasato accanirsi contro di lui – brandendo un coltello.
Chiusi gli occhi per non vedere l’orrore – l’apocalisse del male – che si stava consumando nel salotto di quella villa che amavo come la mia vecchia casa in Texas.
In “Cielo Drive” – pensai – è sceso l’inferno.
Passò qualche minuto e Jay non ci fu più.
Urlai, urlammo disperatamente io e Abigail – con tutte le forze che ci restavano, quelle della disperazione.
Non ci sentì nessuno.
Nella stanza solo suoni di morte – frasi sconnesse di odio contro di noi “pigs” – “puttane del potere” – “vacche da sventrare ed appendere come in macelleria”.
Una giovane ragazza mi colpì dritta in faccia con un pugno – con l’altra mano – incise la mia guancia.
“Ora non sei più così bella” – disse – imprecando contro tutto ciò che io ero e lei detestava.
Eppure io sono sempre stata gentile e cordiale con tutti – persino verso questi ragazzi che vivevano randagi nella periferia della città e vivevano di furti e di scarti di immondizia.
Una volta diedi un passaggio ad uno di loro; un’altra allungai loro qualche dollaro.
Perché questi ragazzi ci odiavano così tanto?
Mi urinai addosso – quasi semi incosciente – per il dolore lancinante che provavo.
Sapevo soltanto che dovevo resistere – per lui – il mio bambino.
Debbo pensare a Paul Richard, Paul Richard, Paul Richard: lo avremmo chiamato così.
Fossi anche diventata storpia o mostruosa – avrei sopportato tutto per farlo nascere.
Abigail fu la terzultima.
Lei che si era sempre vantata della sua pigrizia – lei che era vissuta come una principessa (ereditiera di Folger – il re del caffè) stanca – riuscì a fare uno scatto fulmineo ed a liberarsi della corda che ci legava.
Una delle tre ragazze la raggiunse e la freddò con tre colpi di pistola alla testa – esplosi in rapida sequenza.
Ora eccomi qui da sola – come in quell’incubo di anni fa.
Però stavolta è tutto dannatamente reale.
Realizzo il momento in cui parlai al giornalista della mia premonizione: io la mia morte l’avevo già vista mesi fa.
Capisco che – dalla notte dell’incubo – la clessidra della vita aveva cominciato a far scorrere la sua sabbia ed io non avrei potuto farci nulla.
Forse se avessi veramente colto quel segno – non avrei cercato così ardentemente il mio bambino; ma chi siamo noi – così fragili e terreni – per arrivare a credere a queste cose?
Ricordo che ho pianto tutte le mie lacrime – quelle rimaste – mischiate a rivoli di sangue per implorare di “aspettare” ancora qualche settimana.
Ne chiesi due – con un filo di voce – per far nascere mio figlio.
Un atto di pietà inascoltato.
Fu allora che ricevetti la mia prima pugnalata – al costato.
Mentre il sangue sgorgava copioso – una mano avida ne raccolse un po’ con uno straccio e scrisse “Pigs” sulla porta d’ingresso.
Di coltellate io ne presi sedici – la mia morte fu accompagnata da una lunga agonia.
Mi trovai rannicchiata – in posizione fetale con un bambino che ancora viveva dentro di me – mentre io stavo lentamente abbandonando quel corpo.
Incoscienza. Buio. Ombre. Luce.
Le figure svanirono, le loro urla cessarono.
Ritrovai me stessa – come ero prima di quell’orrore.
In piedi ed illesa – assieme ai miei tre amici.
Il mio bambino bellissimo era dolcemente adagiato nella sua culla.
Un senso di pace profonda ed armonia attorno.
Io mi chiamo Sharon Tate e questa è stata la mia storia.