È inevitabile: i sopravvissuti alla Shoah, lo sterminio programmato e studiato con fredda e spietata determinazione dai nazisti, sono sempre meno. Inevitabile invecchiare, e poi morire. Con loro si perde la memoria di quello che è accaduto, che hanno dovuto patire. Meritori i vari centri di documentazione e “ricordo”, che raccolgono voci e testimonianze di chi ha dovuto vivere quegli orrori. Ma è un molto, un tanto che non sembra sia sufficiente. Un sondaggio della “CNN” che ha coinvolto settemila persone in tutta Europa rivela qualcosa di inquietante: un buon terzo degli intervistati dichiara di non conoscere la Shoah, o la conosce molto poco. Assai più diffusi i pregiudizi sugli ebrei: il 25 per cento degli interpellati dice che hanno troppa influenza nel mondo degli affari e della finanza. Uno su cinque che siano in grado di orientare occultamente i mezzi di comunicazione. Sempre uno su cinque che influenzino le scelte politiche nazionali e mondiali. Non c’è niente da fare, è la conferma di una “legge” di sempre: si comincia con l’ebreo, oppure si finisce con l’ebreo; ma dell’ebreo non ci si dimentica mai. Dell’ebreo. Non della Shoah.
La storia di Joe, 22 anni, innocente nel braccio della morte
Si chiama Joe D’Ambrosio. Senza dubbio di origine italiana: “Mamma e papà italiani, you know”, conferma. Lui, americano 56 anni. Quando ne ha trenta di meno, nel lontano 1988, viene arrestato dalla polizia. È accusato di aver ucciso una persona che – dice – di non aver mai visto o conosciuto. Non gli credono; per quel delitto viene condannato a morte. Può dirsi fortunato, Joe. In cella, in quella prigione in Ohio, con lui c’è un compagno di cella che per quelle curiose vicende che se leggi o le vedi al cinema non ci credi, lo salva. Quel compagno di cella a un sacerdote, padre Neil Kookoothe confida che per lui Joe è innocente. Il prete prende a cuore la vicenda. Si procura gli atti del processo, li studia con attenzione; va da Joe e gli chiede: “Hai ucciso quell’uomo?”. Joe giura di no. Il prete gli crede. Rimedia un buon collegio di avvocati, e nel 2010 il verdetto di colpevolezza viene ribaltato. Ma intanto Joe ha trascorso ben 22 anni nel “braccio della morte”.
“Potrebbe accadere a chiunque”, racconta. “Avevo svolto un onorevole servizio militare, mai avuto problemi con la legge. Un giorno qualcuno ha puntato il suo dito contro di me, e sono finito nel “death row”. Ora Joe si batte per chi si trova dentro quel “braccio” in cui lui ha vissuto per 22 anni: “Basta! È una pazzia, senza alcuna ragione. Se dai l’ergastolo a un innocente, c’è comunque la possibilità di scoprire l’errore e scarcerarlo. Ma se l’uccidi, non potrai fare più nulla”. Semplice, chiaro. Elementare, vien da dire. Forse è proprio questo il problema: il suo esser semplice, chiaro, “elementare”.
Hikikomori
Il termine arriva dal Giappone: “Hikikomori”, cioè “stare in disparte”. Hikikomori sono quei ragazzi che trascorrono praticamente tutto il loro tempo auto-reclusi in una camera (quasi sempre la stanza da letto); vivono di notte, se così si può dire. Collegati a tempo pieno ai social e ai video-giochi. Qualcuno ha calcolato che nella sola Italia siano oltre 120mila i giovani tra i 15 e i 25 anni che vivono in questo modo. Niente scuola, niente amici; pochi o nessun contatto con il mondo esterno. Sempre impossibile, ma chi studia il fenomeno assicura che gli “Hikikori” in Giappone sono proliferati fin dagli anni Ottanta. Fenomeno inquietante che colpisce in particolare i maschi: sembra siano il 90 per cento del totale di questi “malati”. Persone fragili, che invece di risolvere il loro problema, lo accentuano, si chiudono sempre più in se stessi e troncano i rapporti con il resto del mondo.
Chi studia il fenomeno, segnala tre “passaggi” che segnalano il progredire della “malattia”: il primo stadio è il rifiuto della scuola. Non perché ci sia un problema di rendimento o di apprendimento. È che non si è in grado di reggere e controllare il rapporto con insegnanti e compagni di studi. Si passa così ad attività solidarie: video-giochi e chat sui social. Infine si rovescia il rapporto “sonno-veglia”. Gli “Hikikori” preferiscono la notte; appena fa buio si collegano al computer e “navigano”: “Amano la notte perché il mondo, in quelle ore, dorme, è inattivo. E a loro fa un po’ meno paura”.