Poliglotta e globetrotter, era indeciso tra la toga e il clarinetto. Ha scelto quest’ultimo, diventando uno dei giovani clarinettisti più apprezzati con all’attivo collaborazioni importanti. Tommaso Lonquich, mamma italiana e padre tedesco, è nato a Imperia dove ha vissuto fino all’età di sedici anni. In piena adolescenza inizia il suo percorso in giro per il mondo. Negli Stati Uniti finisce gli studi liceali e si laurea all’University of Maryland in musica ed economia. Nel 2006 torna in Europa, prima in Olanda e poi in Spagna. Oggi vive in Danimarca ma porta in giro per il mondo la sua musica.
Il giovane musicista, il 15 Febbraio (vedi video sopra) ha inaugurato a New York il suo tour americano insieme alla Chamber Music Society of Lincoln Center, con cui collabora, definendo ogni suo concerto un “entusiasmante esperimento di chimica musicale”. Ha scelto di approfondire la musica da camera perché “è animata dal dialogo, dalla responsabilità indelegabile, dall’ascolto reciproco”. A La Voce di New York racconta la sua vita in giro per il mondo e il suo rapporto con New York, l’Italia e la Danimarca. “La musica, tra le tante altre cose, é uno specchio del tempo, dice Tommaso, un tempo necessariamente soggettivo. Per questo un musicista è di per sé poliglotta, perché la sua vocazione é tradurre di volta in volta, coniugare al presente sentimenti e visioni antiche. Il nostro compito é rendere intimo ciò che é lontano”.

Il 15 febbraio è iniziato il tuo tour americano insieme alla Chamber Music Society of Lincoln Center. Cosa riserverai al pubblico che verrà ai tuoi concerti?
“Alla Chamber Music Society ogni concerto è un entusiasmante esperimento di chimica musicale. Non si tratta di un gruppo fisso di musicisti: la combinazione varia di progetto in progetto e spesso l’ensemble é un misto di giovani talenti e maestri affermati, di europei e di americani. Ogni programma perciò ha una sua anima specifica, un’indole musicale spesso inaspettata e sempre coinvolgente. Alcuni dei miei colleghi sono vecchi amici, con altri ci conosciamo alle prove. Comune a tutti noi é il desiderio di dar forma viva e vibrante ai capolavori che proponiamo. Il pubblico é nostro complice nel godere della poesia e dell’elettricità che si dispiega quando le mute partiture prendono vita.
Il concerto del 15 febbraio a New York ha registrato il tutto esaurito ed è stato un grande successo e una grande emozione”.
Hai all’attivo un solido bagaglio classico ma nella sua musica c’è spazio per la sperimentazione e l’interazione anche con altre forme d’arte, come il teatro. Che ruolo ha la musica per te?
“La musica ha suscitato in me meraviglia fin dall’infanzia, per via del suo linguaggio così vasto, ambivalente, al contempo esibizionista ed ermetico. Come interprete mi sento vicino al teatro di prosa. Il mettere in scena, il raccontare storie, il rendere la verità attraverso la finzione, la sinestesia. É una magia della quale non potrei fare a meno, sia come ascoltatore che come musicista. Per questo trovo che non ci sia linea di demarcazione tra la musica e le altre arti. Si tratta di un continuum: il concerto é anche rappresentazione, é anche danza, teatro, rituale, confessione. Mi pare quindi naturale che la musica si trovi a dialogare con altre forme d’arte. Mi diverte che oggi i risultati di tali collaborazioni siano accolti come novità o come sperimentazione, poiché non si tratta affatto un fenomeno nuovo: la musica si é sempre associata come partner naturale alla danza, alla liturgia, al teatro (e purtroppo anche alla battaglia).
Lo stesso vale per la mia ricerca sull’improvvisazione, la quale non é una prerogativa esclusiva del jazz (che amo tremendamente), ma la misteriosa nascita di ogni atto artistico. Il suono nasce sempre come improvvisazione, come epifania, indipendentemente dal fatto che poi un compositore lo immortali attraverso la notazione musicale, ingabbiandolo su di un pentagramma. In ogni mio concerto e progetto cerco di trasmettere questo mistero: la nascita della voce dal silenzio, quell’atto amorevole ed eroico che é il sorgere del significato. In principio era il Verbo”.

Cresciuto in Italia da una famiglia italo-americana hai studiato negli Stati Uniti e oggi vive in Danimarca. Quanto la dimensione globale e poliglotta ha inciso nella tua formazione professionale e personale?
“Immensamente. Per me la musica “classica” stessa é un viaggio. Un viaggio nel tempo (nel passato remoto, ma anche nel futuro, nel caso dei più originali brani contemporanei) e un viaggio attraverso tutti i mondi sonori che gli esseri umani hanno fatto scaturire dalla dialettica tra i loro sentimenti ed il loro contesto storico e culturale. La musica, tra le tante altre cose, é uno specchio del tempo, un tempo necessariamente soggettivo. Per questo un musicista é di per sé poliglotta, perché la sua vocazione é tradurre di volta in volta, coniugare al presente sentimenti e visioni antiche. Il nostro compito é rendere intimo ciò che é lontano”.

Quando ha capito che la musica sarebbe stata più di una passione? Perché ha scelto il clarinetto e la musica da camera?
“Sono nato in una famiglia per metà scientifica e per metà musicale e non ricordo un’infanzia che non fosse accompagnata dalla musica. Ho iniziato lo studio del clarinetto a dieci anni, con curiosità ma naturalmente senza ambizioni professionali. Grazie anche al costante sostegno dei miei genitori ho continuato gli studi musicali, che all’università ho affiancato alla facoltà di economia. Negli anni universitari ero fortemente indeciso sul mio futuro, in bilico tra la musica e i futuri studi di giurisprudenza. Ma la scelta l’ha presa il palcoscenico, fonte di un brivido speciale che mi ha catturato e del quale non posso ormai fare a meno.
Negli anni mi sono sempre piú specializzato nel repertorio cameristico. La musica da camera é animata dal dialogo, dalla responsabilitá indelegabile, dall’ascolto reciproco. Per questo l’ho sempre trovata consona alla mia indole. Inoltre il clarinetto é privilegiato da un bellissimo repertorio cameristico, tra cui capolavori maturi di Mozart, Brahms, Schumann, Schubert, Debussy”.

New York, Danimarca e Italia. Come vive questo ponte tra l’Europa e l’America?
“É un vero triangolo amoroso, con tutta l’euforia, la dolcezza e le frustrazioni che questo comporta. Suono più di cento concerti l’anno, la maggior parte dei quali in questi tre paesi: un calendario impegnativo, ma mai intaccato dalla noia o dalla routine, grazie al senso di complicità con i miei partner musicali e alla qualità e varietà del repertorio.
Sono sempre affascinato dalle complessitá e contraddizioni degli Stati Uniti e conservo bellissimi ricordi e intime amicizie degli anni universitari. Naturalmente l’Italia rimane il paese del cuore, se non altro per la convivialitá, il clima, la cucina, la famiglia. Il fatto che oggi abiti primariamente in Danimarca fa anche sí che possa amare l’Italia e gli Stati Uniti da lontano, con una dose di idealizzazione e senza subirne alcune delle realtá piú frustranti”.
Dal punto di vista musicale, accademico, quali sono le differenze significative tra i musicisti che lavorano e studiano in America e quelli in Europa (Italia in primis)?
“Ci sono certamente delle differenze di gusto e sensibilitá, ma la musica é sempre piú globalizzata. Questo porta con se aspetti molto positivi, per esempio la disponibilitá immediata di un’immensitá di partiture e di registrazioni storiche, la possibilitá di viaggiare con facilitá per studiare all’estero, l’opportunitá di seguire un concerto attraverso il live-streaming…
Ma lo stesso processo di globalizzazione rischia anche di erodere la particolaritá, la soggettivitá, che é scintilla della grande musica. L’interpretazione rischia di appiattirsi, di omologarsi: il pericolo é che il cristallizzarsi di norme (nel senso anche di normalitá) renda muto il sorgere di interrogativi soggettivi. Troppo spesso la musica classica, anche se suonata ad altissimi livelli tecnici e apparentemente “bella”, nasce senza vita, priva di storia, quindi fondamentalmente muta.
Per contrastare questa tendenza l’Europa ha forse un vantaggio, dato dalla diffusione negli ultimi quarant’anni della musica barocca eseguita su strumenti originali; nella sua vena non normativa questo movimento ha alimentato freschezza e innovazione, portando allo scoperto nuove sonoritá e donandoci un variegato repertorio che ancora oggi negli Stati Uniti é generalmente sconosciuto e raramente eseguito”.
Hai detto di amare New York e oggi vive in Danimarca. Potrebbe scegliere tre brani che meglio rappresentano NY, L’Italia e la Danimarca?
“Naturalmente tutti e tre i luoghi sono sono terreno fertile di una polivalente produzione musicale. Ma costretto a scegliere, direi: per uno spensierato ricordo di New York, la Rhapsody in Blue del newyorkese Gershwin. Ma in questo sono certamente influenzato dalla mitica sequenza d’apertura di “Manhattan”, di Woody Allen.
Per la Danimarca consiglio l’ascolto della terza sinfonia di Carl Nielsen, intitolata “Espansiva”. Un brano bellissimo, anche se marcatamente piú grandioso e drammatico rispetto alla tranquilla atmosfera del contemporaneo welfare-state danese.
Mi piace immaginare l’Italia durante l’epoca d’oro del barocco veneziano, attraverso i concerti per fagotto di Vivaldi: eleganza, fantasia e geniale semplicità. Li consiglio nell’interpretazione su strumenti originali dell’incomparabile fagottista e amico, Sergio Azzolini”.